Le Olimpiadi furono un apice di felicità collettiva, un lampo accecante prima del buio, il canto dei cigno di un'epoca morente che non sapeva di esserlo. Sarajevo era davvero “il centro del mondo”, titolo del libro successivo di uno dei suoi più grandi cantori, Dzevad Karahasan. Dopo, niente sarebbe stato più lo stesso. Per questo oggi ogni cittadino che nel 1984 avesse già coscienza di sé è pervaso dal dolore dolce della nostalgia di ciò che si era stati, che non si sarebbe stati più. Per questo oggi chi non era nato ma è cresciuto nella mitologia favolistica dell'evento irripetibile si sente un custode della memoria da tramandare ai figli e ai figli dei figli.

Quarant'anni fa esatti (i Giochi invernali cominciarono l'8 febbraio e si chiusero il 19) eravamo in un altro mondo, di quell'altro mondo la capitale della Bosnia era l'emblema. Voleva chiudere il cerchio del Novecento aperto sulle sue strade nel 1914 con lo sparo nazionalista di Gavrilo Princip, mentre ora era il luogo della “fratellanza ed unità”, lo slogan più caro al titoismo esteso a tutto il mondo che lì si era dato appuntamento. Il secolo si sarebbe chiuso sì a Sarajevo ma non nel ricordo di quella allegra sbronza sportiva, bensì con un altro conflitto, l'assedio, la pulizia etnica: il mondo nuovo che si annunciava, tra guerre, sovranismi e fascismi di ritorno.

Il volere di Tito

Nel mondo di prima era possibile che un Paese comunista, la Jugoslavia, scegliesse la capitale di una delle più povere tra le sue Repubbliche per proporla al Cio tra l'incredulità e il sarcasmo persino delle altre Repubbliche costitutive della Federazione. Era il 1977, Tito era ancora vivo e disse sì. Nessuno poteva opporsi al volere del Presidente. Sarajevo sbaragliò la concorrenza di Sapporo in Giappone e di Goteborg in Svezia. Sarajevo si avvicinava al decennio d'oro che avrebbe preceduto il decennio di sangue. Sarajevo era la città dei prodigi dove l'incredibile diventa vero.

Fu incredibile, nel 1979, la vittoria della Coppa dei Campioni di basket della sua squadra, il Bosna, allenata da Boscia Tanjevic, senza giocatori americani e composta quasi esclusivamente da ragazzi del vivaio. Era inspiegabile l'accorrere da tutti i Balcani di intellettuali, artisti, musicisti, un fervore creativo, una scossa elettrica ed elettrizzante che si propagava come se non ci fosse altro luogo dove potersi affermare, non Belgrado, non Zagabria.

Era ancora vivo, prima di diventare immortale con i suoi romanzi Mesa Selimovic colui che scrisse: “Tutte le città hanno un cuore, solo Sarajevo ha un'anima”. Nel cinema muoveva i primi passi Emir Kusturica, il regista che poi avrebbe tradito e voltato le spalle alle sue origini. Il suo sceneggiatore era Abdulah Sidran, poeta di riferimento generazionale. La squadra di calcio, dopo aver vivacchiato a lungo nella mediocrità, lottava per il titolo, lo avrebbe vinto l'anno dopo le Olimpiadi e il suo capitano, Faruk Hadzibegic, ricorderà tra i momenti più significativi della sua vita il successo in campionato e il giorno in cui fu tedoforo, la fiaccola portata a spasso nelle vie dove giocava da bambino. Sport, cultura, politica, tutto si teneva nel circuito virtuoso innescato dalla gioia dell'Olimpiade.

Una piccola New York

Sarajevo metteva in vetrina il suo esempio, la convivenza e la tolleranza, la cattedrale cattolica, la chiesa ortodossa, la moschea e le due sinagoghe, una sefardita e una askenazita, racchiuse in pochi metri. Ma l'esempio non bastava. Bisognava essere all'altezza delle aspettative, dimostrare che Cenerentola invitata al ballo non avrebbe sfigurato. Un'impresa titanica che richiedeva lo sforzo di ciascuno e di cui tutti volevano essere partecipi quasi dicessero a sé stessi: quando ci ricapita? Furono creati diecimila posti di lavoro, trentamila persone accorse da tutta la Jugoslavia si proposero come volontari finché l'ufficio preposto a reclutarli dovette dire basta perché erano troppi. La Bascarsija, il centro ottomano della città che era in sfacelo, fu completamente ristrutturato così come la stazione centrale.

Le facciate dei palazzi ridipinte, le strade allargate, le rotaie dei tram elettrici sostituite. Le brigate di lavoro si alternavano senza soluzione di continuità sui monti che fanno da cornice alla capitale, Bjelasnica, Igman, Trebevic, Jahorina, per preparare le piste delle competizioni, illuminate cosicché di notte si potesse sciare, un primato europeo all'epoca. La gente scendeva con gli sci fino alla porta di casa o all'ingresso delle decine di ristoranti aperti ventiquattr'ore. Sarajevo, una piccola New York che non dormiva mai, adagiata in una conca a 800 metri sul livello del mare.

Il villaggio olimpico e diversi alberghi erano già pronti, come il resto, un anno prima dell'inizio delle gare. Il Cio stabilì il suo quartier generale all'Hotel Holiday Inn. Il presidente Juan Antonio Samaranch alloggiò nella camera 505, la più bella. Sbalordito da tanto entusiasmo, commentò: «Questa è la prima Olimpiade organizzata da un popolo intero».

Era tale il fervore che terminarono ben presto le scorte dei vaccini per l'influenza. Nessuno voleva ritrovarsi in un letto con la febbre nei giorni cruciali. E tuttavia c'era un grande assente: la neve. La neve che imbiancava per almeno otto mesi l'anno le alture era completamente assente. Il 7 febbraio, la vigilia, era primavera, dappertutto dominava il verde. Il piano B dei cannoni era stato previsto ma non era la stessa cosa. Le ore passavano e il nervosismo cresceva. L'uomo aveva fatto il suo, la natura faceva i capricci, una beffa crudele. Ma Sarajevo era o no la città dei prodigi?

Allo scoccare della mezzanotte cominciò a nevicare sulla folla che nelle piazze scrutava il cielo. Una nevicata epocale così copiosa da raggiungere in un breve lasso di tempo il metro, tanto da porre il problema opposto. Il presidente della federazione internazionale sci Mark Hodler chiamò preoccupato il presidente comitato olimpico Branko Mikulic: «Che facciamo? Ci vogliono almeno mille persone per spianare le piste e dove le trovate a quest'ora?». La risposta: «Potrebbero bastare, secondo lei, cinquemila?». La convocazione via radio provocò un esodo verso i monti, furono mobilitati anche i soldati dell'esercito. Il mattino dopo le piste erano perfette.

Il dopo

Per noi saranno le Olimpiadi di Paoletta Magoni, fino ad allora semi-sconosciuta, che vinse l'oro nello slalom speciale, e di Paul Hildgartner, sul podio più alto dello slittino. Per gli jugoslavi quelle di Jure Franko, argento nello slalom gigante, prima medaglia del Paese. Come premio gli avevano promesso un videoregistratore.

Otto anni dopo, nella stanza di Samaranch prese alloggio Radovan Karadzic, il leader dei serbi di Bosnia. L'Holiday Inn pullulava di miliziani con il kalasnikov, da quartier generale dello sport internazionale era diventato quartier generale di una fazione in guerra. Da una finestra il 6 aprile 1992 alcuni cecchini spararono su una manifestazione per la pace e ci fu la prima vittima, una studentessa, Suada Dilberovic. Karadzic con i suoi lasciò l'albergo per spostarsi sulle alture delle Olimpiadi da dove ordinava l'urbicidio di Sarajevo.

Le piste iridate divennero linee di fronte, le infrastrutture distrutte, i cannoni di guerra sostituirono i cannoni sparaneve. Il popolo così protagonista nel 1984 si lacerò in tre fazioni l'un contro l'altra armate, i serbi, i croati e i musulmani. La componente rimasta jugoslavista, esigua minoranza. La pace siglata nel 1995 ha piuttosto l'aspetto di una lunga tregua. Gli abitanti della Bosnia vanno ancora a sciare. Su monti diversi a seconda dell'etnia.

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