Quando il 21 aprile 1964, esattamente sessant’anni fa, il presidente statunitense Lyndon Johnson inaugurò la fiera mondiale di New York, l’attenzione era in gran parte rivolta a una novità senza precedenti: la presenza nel padiglione vaticano della Pietà di Michelangelo. Fu questo il culmine controverso di una politica culturale e religiosa che voleva compensare l’inaridirsi della committenza e dell’uso delle opere d’arte che sono stati una delle caratteristiche di lungo periodo del papato e della chiesa cattolica.

Esposizioni universali

Da oltre un secolo la Santa sede aveva capito l’importanza delle esposizioni universali. Nel 1851, all’inizio del lunghissimo regno di Pio IX, lo stato pontificio aveva partecipato alla Great Exhibition di Londra, con mosaici e sculture, ma anche con prodotti dell’artigianato e dell’industria, accanto al Granducato di Toscana e al Regno di Sardegna.

Nell’Exposition Universelle di Parigi del 1867 la scelta fu invece di esaltare la riscoperta archeologica della Roma cristiana con una originale ricostruzione in scala reale delle catacombe romane – indagate scientificamente proprio in quegli anni da Giovanni Battista de Rossi – che riscosse notevole successo.

La Santa sede si accorse dunque molto presto che questi appuntamenti «non erano soltanto eventi espositivi, fiere campionarie degli stati e dei territori, ma luoghi privilegiati della diplomazia e della politica, occasioni formidabili per attuare, in forme nuove, la sua vocazione universalistica». Così scriveva Antonio Paolucci in una puntuale ricostruzione a più voci di questa vicenda (Attraversare la storia. Mostrare il presente, Musei Vaticani), dove ha definito la presenza della Pietà a New York «l’evento pop più grandioso, più straordinario che mai sia accaduto a una celebre opera d’arte».

Nasce così l’idea di portare il capolavoro di Michelangelo alla fiera newyorkese del 1964, studiata da Rosalia Pagliarani. Ma l’iniziativa suscita dubbi e polemiche aspre, tanto che il giornalista Orazio La Rocca (In viaggio con la Pietà, San Paolo) la definisce, grazie soprattutto alle cronache giornalistiche del tempo, «il più seguito e criticato trasporto di un’opera d’arte».

La storia dell’opera

Da quasi cinque secoli la meravigliosa scultura era nella basilica vaticana. Valentina Hristova (Le sacrifice du Christ, Officina Libraria) ha dimostrato che dalla fine del Quattrocento in Italia centrale il tema del Cristo morto era divenuto molto frequente, e nel 1497 proprio questa fu la committenza del cardinale Jean de Bilhères al ventiduenne Michelangelo, che scelse personalmente il blocco di marmo. Nel 1499 la Pietà era già pronta e venne collocata nella cappella di Santa Petronilla, sul fianco meridionale della millenaria basilica costantiniana che stava per essere demolita e ricostruita nelle forme attuali.

A descrivere il capolavoro marmoreo era qualche decennio più tardi Giorgio Vasari, nelle Vite pubblicate nel 1550: «Quivi è dolcissima aria di testa, et una concordanza ne’ muscoli delle braccia et in quelli del corpo e delle gambe, i polsi e le vene lavorate, che invero si maraviglia lo stupore che mano d’artefice abbia potuto sì divinamente e propriamente fare in pochissimo tempo cosa sì mirabile; che certo è un miracolo che un sasso da principio, senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formare nella carne».

All’ammirazione stupefatta di Vasari faceva riscontro nel 1964, quarto centenario della morte dell’artista, la prosa di un altro toscano, Giovanni Papini, che nella sua Vita di Michelangiolo – riedita mentre la Pietà era ormai a New York – guardava invece alla giovanissima Maria: «La Madonna tiene in grembo il Figlio con lo stesso atteggiamento di tenerezza di quando era bambino, ma il viso non è più lieto come allora e la mano sinistra, invece di essere intenta alla carezza, è distesa di fuori, con la palma aperta, come quella d’una povera che chiede la carità».

Il ruolo di Spellman

Nella scultura michelangiolesca, presto celeberrima, c’è «tutto il valore et il potere dell’arte», aveva sintetizzato Vasari, e alla Pietà pensarono – preferendola all’Apollo del Belvedere e al gruppo del Laocoonte perché più conosciuta dal pubblico – gli organizzatori della fiera newyorkese.

L’iniziativa era nata dalle grandi industrie statunitensi che la finanziarono, ma proprio il carattere commerciale, insieme all’inconsueta durata biennale, indusse diversi importanti paesi a non prendervi parte, mentre l’Unione sovietica, nel contesto della Guerra fredda e della crisi di Cuba, invitò apertamente a non aderirvi.

Nel frattempo la moglie del presidente americano, Jacqueline, aveva ottenuto dalla Francia il clamoroso prestito della Gioconda da esporre al Metropolitan e poi a Washington. Fu invece il cardinale Francis Spellman, l’influente arcivescovo di New York, a spendersi in ogni modo per far sì che la Santa sede fosse presente negli Stati Uniti con un’opera d’arte altrettanto famosa. In un momento – osserva Pagliarani – «in cui la presidenza Kennedy, contrariamente alle aspettative dettate dalla comune appartenenza cattolica e dalle origini irlandesi, non intendeva» favorire il potentissimo prelato, noto come il «papa americano» e di tendenza conservatrice.

Convinto dal cardinale, il papa diede l’assenso al progetto. Il 31 ottobre 1962, tre settimane dopo l’inizio del concilio, con un’inedita cerimonia trasmessa per televisione, premendo un pulsante in una sala del palazzo apostolico Giovanni XXIII dava avvio ai lavori oltreoceano per la costruzione dell’avveniristico padiglione vaticano. Smagrito e segnato dalla malattia, il pontefice – che si sarebbe spento sette mesi più tardi – era affiancato da Spellman e da un amico del prelato statunitense, il segretario di stato Amleto Cicognani, per un intero quarto di secolo, dal 1933 al 1958, rappresentante papale a Washington.

Le polemiche e il successo

Dopo la morte di Roncalli, il nuovo papa Paolo VI confermò allo stesso presidente Kennedy – ricevuto in udienza il 2 luglio 1963, undici giorni dopo l’elezione – l’assenso all’eccezionale prestito. Ma le polemiche si erano intensificate in Italia, negli Stati Uniti e sulla stampa internazionale. Favorite anche da un incidente che nel marzo precedente aveva lievemente danneggiato la Venere di Milo giunta dal Louvre a Tokyo in vista delle olimpiadi.

Così il viaggio annunciato della Pietà venne definito un’idea «curiosa» sul Borghese del 28 novembre – nei giorni sconvolti dalla notizia dell’assassinio del presidente americano – da Giuseppe Prezzolini che chiedeva cos’avesse «da fare» la Pietà «con quell’impresa commerciale, volgare, rumorosa, danarosa che è la Fiera Internazionale». Una risposta indiretta arrivò, quando ormai il capolavoro era a New York, da Jean Guitton: «Da una nazione all’altra la bellezza naviga, il simbolo percorre lo spazio. Ciò che importa allora è che l’oggetto di Bellezza sia veramente il simbolo della nazione che acconsente a prestarlo come un’immagine di ciò che in essa è inesprimibile».

L’imballaggio e il trasporto della Pietà – immersa nel nuovissimo polistirolo e protetta da una cassa di legno rinchiusa in un contenitore d’acciaio, nonché assicurata per l’enorme cifra di 26 milioni di dollari (equivalenti a circa 250 milioni di euro) – furono seguiti da appassionate cronache giornalistiche: dal Vaticano a Napoli su un furgone, poi sul transatlantico Cristoforo Colombo fino a New York. L’esposizione del capolavoro (gratuita per volere del Vaticano ma coperta da donazioni) venne affidata per l’allestimento a Jo Mielziner, uno dei più famosi scenografi teatrali di Broadway, coadiuvato dallo storico Charles de Tolnay e da Irving Stone, autore del best seller Il tormento e l’estasi, da cui nel 1965 fu tratto il film di Carol Reed.

E migliaia di magnifiche fotografie in bianco e nero della Pietà vennero scattate da Robert Hupka, curatore dell’accompagnamento musicale, immagini poi al centro di una mostra itinerante per anni in Europa. Ventisette milioni – tra loro lo stesso Paolo VI durante il viaggio a New York il 4 ottobre 1965 – furono i visitatori di questo «tentativo di integrazione tra arte “alta” e cultura di massa», riuscito e tuttavia rischiosissimo.

Ma nessuno pensò alla protezione del capolavoro, rientrato a San Pietro il 13 novembre, come a New York era stato fatto con sette lastre di Plexiglas. Il 21 maggio 1972 un pazzo si accanì con quindici furiose martellate soprattutto sul volto della Vergine. Solo dopo il miracoloso restauro la Pietà venne protetta da una barriera di cristallo.

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