Cinquant’anni fa, nella primavera del 1952, si verificò in Italia un tripudio senza precedenti di avvistamenti di dischi volanti e altri oggetti spaziali non identificati. Le nostre volte celesti non erano mai state così intensamente visitate – o, se lo sono state, non ce n’eravamo accorti.

Sconvolto dal silenzio delle istituzioni a riguardo, un senatore del Psdi avviò un’interrogazione parlamentare. Soltanto in America, sosteneva l’onorevole, un governo occidentale ha il coraggio di comunicare all’opinione pubblica le osservazioni degli organi competenti sugli Ufo. Gli rispose il sottosegretario alla Difesa facendo presente che non c’era, banalmente, nulla da comunicare.

Il presidente della Repubblica era d’altronde l’illuminato e illuminista Luigi Einaudi, che di fatti ufologici non si interessava – sebbene essi continuassero ad avere luogo: nei giornali dell’epoca ne compaiono quasi seicento, alcuni dei quali legati ai più classici e discussi incontri ravvicinati nostrani.

Perché si formassero degli effettivi “organi competenti” a scrutare il nostro spazio aereo in cerca di corpi e luci inspiegabili si dovette dunque aspettare il settennato di Giovanni Gronchi, il quale già si era adoperato, da presidente del Consiglio supremo della difesa, per l’istituzione di una commissione d’inchiesta che rispondesse direttamente al Quirinale su tali fenomeni.

Fu appunto sotto Gronchi che si fondò, a Marina di Pietrasanta, il primo centro ufologico della nazione: il Centro indipendente ricerche notizie osservazioni spaziali. A guidarlo, investigando casi di contatto telepatico tra italiani e alieni nonché interferenze elettromagnetiche delle navicelle intergalattiche sui motori delle macchine Fiat e altri congegni, fu Ernesto Michahelles, che nella vita precedente era stato un artista d’avanguardia della Firenze del primo Novecento. Sotto il nome futurista di Thayaht aveva inventato, nel 1919, la tuta.

Un abito futurista

La tuta si chiama tuta appunto in onore del nome d’arte palindromo del suo inventore, che ne curò anche il pionieristico marketing (googlatelo, è bellissimo).

Non mi riferisco alla tuta composta da pantaloni di felpa (o acetati) e giacchetta con la zip: quella da sport, da mafioso burino dei Sopranos, da coatto di Spinaceto o da trapper che indossa capi da casa in costosissime versioni da red carpet. Parlo della tuta originaria, disegnata come unione dei pezzi “di sopra” e “di sotto” che altrimenti bisogna scegliere separatamente e abbinare, infilandoli l’uno nell’altro con magari una cinta al mezzo.

Prima di disegnarla così, in un unico pezzo tipo pigiamone, Thayaht era stato a scuola di moda da Madeleine Vionnet, nel cui atelier parigino aveva sviluppato modelli arditi e sperimentali di grande influenza. Nulla, nelle sue varie vite creative, è stato però più influente dell’idea di un capo d’abbigliamento unico, universale ed ecumenico: un vestito, come diceva appunto la sua campagna di marketing, «per tutti».

Tuta per tuttə

Sospetto che, se dovessero pubblicizzarla oggi come la pubblicizzarono aggressivamente un secolo fa, Thayaht e Ram (suo fratello, all’anagrafe Ruggero), avrebbero scritto sui volantini con cui tappezzarono Firenze che la tuta è “un vestito per tuttə”, con la schwa.

Il totalismo futurista infatti, che ambiva a coinvolgere ogni aspetto della vita delle masse (incluso, senz’altro, il guardaroba) nella ricerca artistica, è stato anche un tentativo di superare i generi – non a caso il futurismo ha annoverato, paradossalmente, più donne di qualsiasi altra forma di modernismo organizzato in Italia.

Il «disprezzo per la donna» del primo Manifesto si è presto trasformato, per molte frange del movimento, in un disprezzo per i ruoli sociali, per le convenzioni ataviche, per le fragilità comportamentali legate al concetto di donna, da cui liberare le donne stesse.

Tale paternalistica liberazione radicava però chiaramente in una forma di misoginia particolarissima, che forma il gheriglio fondamentale dei problemi che affliggono tutt’ora la maschilità: l’idea, di per sé in effetti liberatoria, che la femminilità sia un costrutto che si può smantellare, ma che sotto i suoi codici e costumi si celi l’essenzialità irriducibile di un maschile universale.

La tuta, nell’essenziale T che forma unendo pantaloni e camicia in un unico indumento di linee rette, rappresentava sinteticamente quest’immodificabile anima maschile dell’umano.

Il maschilismo d’avanguardia che suggerì a Thayaht di uniformare gli abiti in un singolo oggetto funzionale consisteva nel trattare il femminile come una devianza performativa da una norma maschile invece oggettiva, ineludibile.

Nell’idea, insomma, che chiunque sia riconducibile a un principio maschile di aggressività, linearità, angoli di novanta gradi, semplicità spiccia, praticità spoglia, forza: tutte caratteristiche immaginate come standard naturali invece che come formazioni culturali analoghe a quelle legate al femminile.

A pensarci un attimo, è in fondo una conseguenza logica dell’idea biblica di Eva germinata dalla costola di Adamo, così chiaramente scolpita nella pietra da Wiligelmo nella cattedrale di Modena.

Ebbene, le prime tute di cento anni fa promettevano di rendere il corpo di chiunque agile, veloce e uniforme come quello di un uomo neutro, ideale e infinitamente ripetibile. I disegni promozionali nei volantini che ho menzionato mostravano come la tuta futurista si sarebbe adattata a qualsiasi fisico – grasso, allampanato, muscoloso o, appunto, femminile – liberandolo da orpelli e impacci. L’unico problema, astutamente parodizzato nelle pubblicità ciclostilate, sarebbe stato di natura intestinale, giacché andare al bagno con indosso un abito «tutto d’un pezzo» non è banale.

L’impatto universale

Il maschio universale e post-gender plasmato dalla tuta futurista si è in effetti verificato in vari modi, il più inquietante dei quali è la disumanizzante tuta arancione dei carcerati e delle carcerate d’America.

Thayaht, come molti futuristi sopravvissuti alla Prima guerra mondiale, divenne un fascista, e la sua visione di Mussolini come Il grande nocchiere, in un quadro oggi conservato a Genova, fa del duce un robot titanico senza connotati, liscio e metallico, inorganico. Ma più di quel detestabile cyborg, l’uomo totipotente del futuro concepito con ago e filo da Thayaht si è manifestato nelle fabbriche, nelle caserme dei pompieri, nei camion della nettezza urbana e nei razzi spaziali di tutto il mondo, oltre che sulle passerelle e sulle piste da sci o da ballo.

Pensateci: i minatori e gli operai, i netturbini e gli astronauti, i vigili del fuoco e i piloti di formula uno indossano tutti tute simili a quella inventata da un fiorentino per maschilizzare e velocizzare i corpi di una nazione sul crinale del totalitarismo. Il fatto che la tuta tutta d’un pezzo sia diventata, proprio per le caratteristiche di funzionalità cercate dal suo creatore, la divisa dei lavoratori e dei supereroi (che pure sono tutti in tute e tutine) costituisce forse l’impatto più grandioso e ramificato che la moda e il design italiano abbiano avuto nella storia dell’umanità.

Tute spaziali

Nel primo episodio di The Next Generation, la superba serie di Star Trek in cui il capitano è interpretato da Sir Patrick Stewart, in uno dei corridoi dell’Enterprise passa un uomo (un alieno umanoide?) che indossa una gonna. Questa comparsa fa capolino un paio di volte e poi mai più lungo l’arco delle sette stagioni.

Immagino che l’idea fosse che nel XXIV secolo ci saremmo infine liberati delle convenzioni di genere (almeno in quanto a vestiti) e che l’utopistica federazione dei pianeti sarebbe stata animata, sulle navi intergalattiche, da creature consapevoli dell’intercambiabilità dei costumi che arbitrariamente chiamiamo maschili o femminili.

Forse il cosmonauta in gonna apparve presto inutile agli sceneggiatori, e fu dunque tagliato, perché in quella serie si stabilizza un più definitivo e universale scarto nella concezione della moda del futuro: maschi o femmine che siano, gli ufficiali della federazione indossano tutti una tuta, dal cadetto all’ammiraglio. Si tratta di tute davvero futuriste, elastiche e sobrie, che omogeneizzano i corpi senza renderli meno desiderabili e che affidano al solo colore il compito di distinguere (per grado e funzione, non per genere o provenienza) chi le indossa.

D’altronde, quando non li concepiamo nudi o corazzati, immaginiamo tanto spesso anche gli alieni a noi superiori come creature vestite di tute spaziali. Immagino che Thayaht, reinventatosi ufologo dopo la guerra, avrebbe gradito l’eredità fantascientifica e androgina della sua invenzione maschilista.

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