I romanzi servono a dire bene le cose, a dire le cose con precisione, perché in nessun altro campo è richiesta un’accuratezza espositiva (che poi rimanda inequivocabilmente a un’accuratezza concettuale), tranne che nel romanzo, questa precisione fuori dal romanzo non solo non è richiesta, ma è quasi mal vista, è sconsigliata, fuori dal romanzo a vincere è la trascuratezza, le cose dette male, alla gente non importa un bel niente di come vengono dette le cose, se bene o male, e anzi se proprio dovessimo dire la verità, ci sarebbe da affermare che il male è in vantaggio sul bene, che tra dire bene o male una cosa è meglio dirla male, perché è così che fanno tutti ed è così che funziona il mondo, per quale ragione adesso dovremmo impedire il regolare funzionamento del mondo sforzandoci di dire una cosa nella maniera più esatta possibile?

Per quel fastidio ci sono per l’appunto i romanzi, piccoli granelli di sabbia che rischiano di inceppare il meccanismo del “vivere, produrre e crepare”, se mai qualcuno avesse ancora l’ardire di leggerli.

A questo ho pensato leggendo il romanzo Gelo, esordio di Thomas Bernhard del 1963, pubblicato per la prima volta in Italia da Einaudi nella traduzione di Magda Olivetti, ora interamente rivista da Marina Pugliano in occasione della nuova uscita Adelphi.

Parlo di precisione - che è una delle qualità letterarie più importanti quanto innominate e starei per dire impopolari - proprio perché l’opera di Thomas Bernhard ne fa un manifesto programmatico o, a piacimento, una ode ininterrotta.

L’ossessione

Tutti i lavori di Bernhard - e non fa eccezione questo suo primo - sono una forma ossessiva di precisazione, di puntualizzazione.

Si dice spesso che scrivere è riscrivere, e Thomas Bernhard questo assunto lo sposa totalmente, non limitandosi a dare più versioni dello stesso scritto, bensì attuando la riscrittura come una sorta di affinazione in fieri, una continua ricalibratura in corso d’opera, una revisione in diretta, che si compie mentre la scrittura procede.

Un vorticare sugli stessi concetti e sulle stesse immagini che ha come scopo non la risoluzione dei problemi, bensì un’infinita ruminazione.

È per causa di questo snodo che dobbiamo annoverare Thomas Bernhard tra i pessimisti, laddove la riscrittura in genere si consuma nel desiderio della progressione, del miglioramento del testo (riscrivo per ottenere la migliore versione possibile di un testo, e poi pubblico quella), mentre invece qui è usata soltanto come un chewing-gum metafisico.

La prosa di Thomas Bernhard in questo senso è un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, una sottolineatura esasperata che esalta il limite della lingua, la sua fallacia comunicativa. La letteratura inizia proprio quando finisce la possibilità del dire, sennò sarebbe solo buona o cattiva pubblicità.

E queste idee nere lo scrittore le presta anche al protagonista del suo primo romanzo, lo scorbutico pittore Strauch, il quale si è auto-segregato in un villaggio racchiuso tra pareti di roccia e non solo non dipinge più, ma ha anche bruciato tutte le sue opere, consapevole della sconfitta a cui è soggetto ogni autentico slancio artistico, costretto come dita dei piedi dentro alle scarpe sempre troppo strette del velleitarismo.

Il compito di raccontarci quest’uomo particolare - e totalmente, integralmente, già bernhardiano - è affidato a un medico, il quale da par suo non potrà che redigere dei patetici resoconti incapaci di scalfirne il mistero. Insomma, per Thomas Bernhard la scienza non fallisce meno dell’arte.

Il vaccino del pessimismo

«È, come si suol dire, un pensatore. Ma gravemente disturbato. Perseguitato da vizi, vergogne, timori reverenziali, rimproveri e autorità, è un tipo che ama le passeggiate, è quindi un uomo che ha paura. È iracondo. Un misantropo».

Questo è il primo biglietto da visita dell’artista Strauch di cui Thomas Bernhard metterà il cuore a nudo, per dirla con Charles Baudelaire, un altro pessimista che col suo veleno ci ha migliorato la vita. Sì perché il pessimismo funziona come un vaccino, inocula nell’organismo il virus necessario per produrre gli anticorpi.

Esattamente come in Giacomo Leopardi o in Louis-Ferdinand Céline, il pessimismo protegge dalla malattia, difende dai colpi, talvolta mortali, sferrati dalla stessa vita. La letteratura però non deve essere semplicemente una consolazione, ma dovrà spingere alla riflessione.

Da qui il carattere speculativo della narrativa di Thomas Bernhard, che di fatto rinuncia quasi sempre a una trama articolata, preferendo di gran lunga il ragionamento ad libitum di cui si è detto attorno a un nucleo di temi universali che torna da un libro all’altro. Più la questione è insolubile più diventa attraente, il mistero è romanzesco solo se non ha soluzione.

Anche in Gelo l’azione si limita a seguire i due personaggi in lunghe passeggiate speculative attraverso paesaggi rastremati dal freddo, che diventano vere e proprie sedute di autoanalisi: «Le mie notti erano insonni, opache e grigie… talvolta sobbalzavo: e lentamente m’accorgevo che tutto ciò che avevo pensato si rivelava falso, perdeva valore, una cosa dopo l’altra, tutto di conseguenza diventava senza senso e senza scopo… E ho scoperto che la gente intorno a noi non vuole che la si illumini».

La nascita di uno stile

Gelo parte piano, quasi in sordina, non bisogna dimenticarci che è l’esordio di Thomas Bernhard.

La voce è già spietata, ma l’inabissamento di Strauch vero la follia - cioè verso la più sapiente tra le lucidità disponibili - è graduale. E’ come assistere alla nascita della prosa particolarissima di Thomas Bernhard, pagina dopo pagina (non parlerei di sbocciare, in quanto Bernhard nasce, letteralmente, quando sfiorisce).

E si riconosce la sua giovinezza da quanto si sforza di non perdere del tutto il controllo, dalla paura di apparire troppo anticonvenzionale, troppo se stesso.

L’abnormità del suo costrutto è ancora schiacciata da convenzioni romanzesche di cui poi, nei libri successivi, non resteranno che macerie. Thomas Bernhard parte all’avventura del romanzo come un cavaliere catafratto che non veda l’ora di essere disarcionato, ma i capolavori sono solo a un passo - Il soccombente, A colpi d’ascia, Antichi maestri, Estinzione.

Il suicidio

Come si esce da questo groviglio speculativo? Con il suicidio, naturalmente. I problemi non possono risolversi, ma possono cessare di esistere. Un morto non pensa.

È questa la conclusione alla quale perviene il pittore Strauch, del resto ampiamente anticipata dal medico che lo osserva in una vertiginosa analessi all’inizio della storia: «Come mai pensa solo al suicidio? È possibile che per qualcuno il suicidio sia una specie di segreta voluttà, che possa dominare una persona così completamente? (…) Ho l’impressione di trovarmi all’ombra di un processo mentale che mi è affine: di essere all’ombra del suo suicidio».

E come il narratore lo siamo anche noi lettori. E non smetteremo di rendere grazie agli scrittori pessimisti che non ci vogliono solo intrattenere, e che con le loro strane narrazioni antinarrative ci spingono fino al bordo dell’abisso, ogni volta facendo buttare giù i loro personaggi al posto nostro. Non è tanto questione di catarsi, quanto di assolvere al compito più alto della letteratura: farci vivere senza conseguenze pratiche vite che non sono la nostra, ma che potrebbero tranquillamente esserlo.

«Riesco a superare la notte, a superare quella terribile disperazione, che diventa visibile sulle pareti che io riempio di graffi con le mie dita (…) Ho le unghie rotte. Il dolore che s’irradia dalla mia testa è qualcosa di talmente impensabile che io non riesco a esprimerlo a parole».
 

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