Sarà stato il Covid, sarà la guerra, saranno l’arroganza della tecnologia e gli equilibri geopolitici che si sfarinano, fatto è che il nostro orizzonte è diventato più stretto e contraddittorio. Da un lato ognuno di noi sa, anche senza dirselo, che pensare a una rivoluzione in occidente è autolesionista e che perfino una rivoluzione nel campo avverso pare tutt’altro che augurabile (quanti hanno fatto gli scongiuri, pregando che Putin non venisse rovesciato?).

Dall’altro lato, si ha l’impressione che i guai ci siano franati addosso, mai così vicini e così in poco tempo; la reazione è stata l’ottimismo coatto, a partire dal famigerato “andrà tutto bene”: sui media è proibito parlare di sfiducia, se non come termine tecnico per fare casino in parlamento.

È obbligatorio che qualunque analisi, per quanto lucida e spietata, si concluda con un messaggio positivo: c’è ancora tempo per, il papa ha aperto uno spiraglio, il problema è complesso ma non insolubile, l’umanità alla fine non può non prevalere. Abolire lo stato di cose presente è impossibile ma non possiamo permetterci di credere che le cose vadano indefinitamente peggiorando. La luce in fondo al tunnel, il sole dopo la tempesta. Catastrofismo, nichilismo, fuga nel negativo: ogni discorso su un’impotenza reale viene rubricato come perversione psicologica, egoismo congenito, qualunquismo politico, voglia di farsi notare. Roba da vergognarsi, insomma. 

Speranza ideologica

Da questo si deduce che ora la società occidentale è costretta a sperare che le cose migliorino. È una tendenza naturale di qualunque essere vivente, si dirà, è un corollario dell’istinto di conservazione. Ma un desiderio, o addirittura un istinto, può essere promosso a ideologia? Può diventare la lente attraverso la quale giudichiamo ciò che accade intorno a noi, o perfino un criterio morale secondo il quale saremo giudicati («pensa positivo, se no sei una merda»)?

C’erano una volta i “miglioristi” del Pci (Amendola, Napolitano) che si ripromettevano di raddrizzare il capitalismo dal suo interno, come nei primi anni Trenta alcuni volevano fare col fascismo (Dino Grandi, il giovane Montanelli): buone intenzioni finite in nulla, come quasi sempre le buone intenzioni applicate alla politica. Ora la speranza nel meglio è meno legata a un posizionamento partitico e si traduce in posture (chiamiamole così) più largamente esistenziali. Distinguerei tre atteggiamenti di fondo.  

Dalla parte giusta

Il primo modo di vivere sperando si realizza per contrario: consiste nell’indignarsi per ogni stortura e ce ne sono abbastanza in giro per farci sentire continuamente dalla parte giusta: la corruzione a ogni livello, i femminicidi, i migranti lasciati morire in mare, i ‘furbetti’ di qualunque ordine e grado, chi non paga le tasse, chi non rilascia gli scontrini, chi abbandona i cani in autostrada.

Non c’è nemmeno bisogno di trovare soluzioni, basta invocare pene a casaccio; i social sono meravigliosi, se sotto un post in cui stigmatizzo X o Y trovo centinaia di like, posso illudermi di star creando un piccolo “movimento di opinione” che contribuirà a migliorare i rapporti umani. Far crescere il tasso di indignazione tiene sveglia la coscienza civile, e se una si attenua c’è sempre pronta un’indignazione fresca di giornata.

Il lungotermismo

Il secondo modo è più articolato e costruttivo, richiede una spesa intellettuale maggiore: si tratta di immaginare riforme a lunga scadenza, così lunga che un eventuale fallimento sia rimandato a quando avremo elaborato riforme ancora più ambiziose. Sistemare l’economia del Terzo Mondo, per esempio, programmare uno sforzo coordinato di aiuti che convinca gli abitanti a restare dove sono, perché vivranno bene anche in Africa o in Bangladesh, che non avrà più alluvioni.

A questo proposito, fare tanti piccoli sacrifici individuali che sommati ridurranno l’inquinamento e la siccità, e i bisogni energetici, in attesa che la fusione fredda faccia regredire il riscaldamento globale con gli annessi disastri ambientali.

Oppure cambiare la mentalità di tutti i maschi del globo terracqueo, sottraendoli al patriarcato che li permea fin nelle più intime fibre, liberando i sessi dalle ipoteche del Potere; o ancora sradicare dai discendenti degli antichi colonialisti ogni traccia di razzismo sistemico, compreso quello inconscio.

Più fortunati i credenti monoteisti, che invece delle riforme a lento rilascio possono credere nell’avvento improvviso di un Messia inviato ad hoc, o in un soprassalto di carità cioè di amore universale.

Combattere

Il terzo modo è più tortuoso, per chi non si accontenta di rifugiarsi nel privato: “lavorare su di sé” può avere anche un significato pubblico (“il privato è politico”, slogan arcaico che torna buono all’occasione). Può voler dire non arrendersi, cercare ogni giorno di allenarsi al meglio invece che abituarsi al peggio, battere in breccia l’accidia e l’indifferenza.

Per i più giovani, il comandamento può essere semplicemente muoversi per non stare fermi; scendere in strada o in piazza, creare gruppi e associazioni, contarsi con soddisfazione se si è in molti o inorgoglirsi della diversità quando si è in pochi, disprezzare i compagni tutti videogiochi e discoteca – il movimento in sé serve a fortificarsi in una identità combattiva, e non importa se le tende montate in furia la mattina si afflosceranno dimenticate nel pomeriggio; serve a testimoniare il futuro come qualcosa che deve, per forza, essere meglio del presente e del passato.

Di questo si dichiarano certi gli educatori, i preti, gli astronauti che scrivono romanzi, gli sportivi a fine carriera. I genitori si sentono in dovere di trasmettere questa certezza ai figli, anche se la famiglia è andata com’è andata e i modelli in casa non sono stati un granché.

I sensi di colpa si trasmutano alchemicamente in incitamenti e sogni per procura – molti hanno padri o nonne che ai loro tempi non si sono fatti (fatte) intimidire e urlavano contro le ingiustizie: striscioni, bandiere, contro gli yankees o Pol Pot, i carri armati cinesi o la Bomba. L’importante era esserci, i girotondi e il popolo viola, «una risata vi seppellirà».

Che fare, poi, quando i risultati non si rivelano pari alle attese e la delusione si erge di fronte a noi come un muro compatto ? Quando le nazioni comprano e vendono freneticamente armi usando l’Ucraina come zimbello, quando le decisioni forti sul clima sono rimandate alle calende greche e gli autoritarismi risultano vincenti nelle competizioni elettorali, e il patriarcato domina nei Paesi che non accettano più la supremazia dell’occidente?

L’intersezionalità basta a rianimare ? Certo, si può aggiustare il tiro, rimproverarsi di diagnosi superficiali (o rimproverare altri, meno doloroso); si può sbagliare meglio, come diceva Beckett. Oppure si può aprire uno spazio di scissione: lasciare che una parte di noi continui a militare, mentre una parte di noi più segreta non ci crede più e fa la nichilista alla chetichella. Ci si può avvicinare al buddhismo e leggere deliziosi apologhi zen sul mondo come apparenza, salvo incazzarci come belve se qualcuno ci passa davanti al concorso.

C’è sempre la soluzione che molti militanti delusi adottarono dopo il Sessantotto: sposarsi, mettersi a lavorare per la tivù, aprire un ristorante. Ora va molto l’affondo sociologico sulla generazione Z che non crede più nell’umanesimo e diserta le urne, che fa sesso a distanza e al miglioramento preferisce la metamorfosi: apatica e violenta, forse mutilata dell’essenziale. Si favoleggia della necessità di “passare il testimone” in una corsa dove il traguardo si sposta all’infinito. La speranza non deve morire, citofonare Sisifo.

L’inganno di Sisifo

AP

Su Internet circola una interpretazione “facilitata” del mito di Sisifo secondo Albert Camus; il re di Corinto, condannato dagli dèi dopo la morte a spingere in salita per l’eternità un masso che perennemente rotola giù, sarebbe il simbolo che “la lotta basta a sé stessa”.

Ma Camus è ben lontano da una conclusione così facilmente assolutoria; il suo è un libro sull’assurdità dell’esistenza, tra gli esempi che fa per riempire l’assurdo ci sono Don Giovanni e Kirillov (il dinamitardo dei Demoni di Dostoevskij che freddamente e teatralmente si suicida). «Bisogna immaginare Sisifo felice» scrive Camus alla fine del saggio, è vero, ma non è la felicità della retorica e dell’ipocrisia.

Non c’è niente di male a constatare l’impotenza personale o collettiva, non c’è niente di male nell’insegnare ai giovani la disperazione. A constatare la compattezza del muro, ad abitare il buio del presente. Non è il cinismo contro l’entusiasmo, anche nella conoscenza c’è passione.

         

© Riproduzione riservata