Le Paralimpiadi sono come una doccia per l’anima. E un po’ ci fanno tornare bambini quando le favole della sera erano la chiave dei sogni per la notte e per la vita. Però il potere terapeutico delle storie a lieto fine non si esaurisce nell’infanzia. Basti pensare al successo del libro della psicanalista Clarissa Pinkola Estés, Donne che ballano coi lupi, un’analisi di fiabe delle più varie tradizioni culturali che ha aiutato ormai due generazioni di lettori a capirsi, a trovarsi e a liberarsi dai condizionamenti che inquinano un'esistenza non autentica.

Guardare gli atleti paralimpici in azione ha questo effetto taumaturgico: che lo si faccia dalla prospettiva della persona o della performance comunque la morale delle loro storie filtra senza bisogno di spiegazioni e scatena emozioni forti che sanno accendere anche i motori più arrugginiti. L’esempio diventa ispirazione e ci apre gli occhi anche se a darlo, paradossalmente, sono persone che gli occhi non li possono usare.

Tra le varie discipline e categorie del programma paralimpico quelle in cui atleti ciechi gareggiano insieme a una guida offrono qualcosa in più: sono allo stesso tempo uno spettacolo sportivo e un inno alla fiducia di rara bellezza. Sono la declinazione agonistica del mito del dono, dato e ricevuto; dell’armonia della coppia in cui ognuno non è né doppio né mezzo; della cura come ciclo virtuoso nelle relazioni. 

Nella riabilitazione dopo un’operazione o un grave infortunio, il recupero della capacità di percepire la posizione e il movimento (la cosiddetta propriocezione o cinestesia) passa anche attraverso l’esecuzione di esercizi ad occhi chiusi. Eliminare le informazioni che il sistema nervoso acquisisce attraverso la vista significa mettere in crisi equilibrio, coordinazione, orientamento.

Adattarsi e superare questa difficoltà permette di ottenere un contributo maggiore, da parte degli altri sensi, al fine di aumentare la consapevolezza del corpo nello spazio. Ne consegue una migliore abilità quando il canale visivo viene nuovamente aperto.

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Il buio

L’esecuzione corretta, al buio, di piccoli movimenti come semplicemente stare in piedi senza ondeggiare, spostare il peso da una gamba all’altra, sollevarsi sulle punte dei piedi o sui talloni, rende bene l’idea di quanto possa essere difficile non vedere e esprimersi in una competizione alla ricerca della massima prestazione.

Lo sa bene chi ha praticato sport di resistenza in cui la fatica arriva a livelli tali per cui spesso annebbia la vista anche a chi problemi con gli occhi non ne ha. E lo sa bene pure chi ha fatto sport di potenza e velocità in cui lo sforzo estremo, necessario a produrre il miglior risultato, non può convivere con incertezze. Andare al massimo nel buio implica anche un grande rischio e perciò esistono le guide.

Tra le varie discipline paralimpiche per atleti ciechi, sono due le modalità attraverso cui la guida contribuisce al raggiungimento del risultato.

Una è indiretta ovvero prevede che sia la voce a orientare l’atleta durante la sua performance: è il caso del salto in lungo. Prima di iniziare la rincorsa, un giudice aiuta l’atleta a posizionarsi nella direzione corretta rispetto all’asse di battuta.

A quel punto è la guida, posta a lato della pedana, a dare segnali vocali: al suo via e per tutta la durata della rincorsa è il modo attraverso cui il segnale sonoro viene eseguito dalla guida e percepito dall’atleta a rappresentare il filo che li unisce. L’altra modalità è diretta ovvero la guida partecipa attivamente alla performance. Come nel ciclismo su pista con il tandem che ha vinto la medaglia di bronzo, composto da Lorenzo Bernard e Davide Plebani (guida), disciplina in cui l’atleta cieco è unito indissolubilmente alla sua guida attraverso il mezzo.

In bici

Girare a oltre 60 km/h in un velodromo lungo 250 metri e con curve inclinate di 45 gradi, con la tensione del pedalare al massimo sforzo e, allo stesso tempo, con la morbidezza necessaria ad assecondare i movimenti di chi guida, è un esercizio di conciliazione di estremi che può realizzarsi solo in un clima di fiducia assoluta. O come abbiamo visto nel triathlon con la coppia che ha conquistato l’argento, composta da Francesca Tarantello e la sua guida, Silvia Visaggi.

Tuffarsi nella Senna e nuotare legate con un cordino, poi spingere sui pedali in tandem in un percorso tecnico pieno di curve e poi ancora rimettersi il cordino in vita, quasi fosse un’imbragatura in una cordata alpina e infilare le scarpe da corsa per arrivare al traguardo, dopo aver dato tutto l’una all’altra e ricevuto tutto, l’una dall’altra. E abbracciarsi e piangere, insieme, lacrime di gratitudine che sgorgano uguali dagli occhi che vedono e da quelli che non vedono.

Non è come in una squadra in cui ciascuno ha il proprio ruolo e tutto può scorrere anche senza essere amici o cambiando componenti ad ogni stagione. C’è qualcosa in più e di estremamente affascinante nel rapporto della coppia formata dall’atleta e la sua guida attivamente coinvolta nella prestazione; qualcosa che arricchisce il senso della pratica agonistica e apre nuovi benefici orizzonti a cui guardare tutti, sportivi e non sportivi.

Qualcosa che assomiglia a quella reciprocità che è l’equilibrio delle relazioni che funzionano, in cui ognuno contribuisce e ognuno riceve in modo equo e, nel tempo, crea la fiducia perfettamente rappresentata simbolicamente da quel cordino alla vita che talvolta diventa solo un piccolo legaccio al polso come abbiamo visto nella coppia arrivata davanti alle nostre azzurre (formata dalle spagnole Susana Rodrigues e Sara Perez Sala).

Le guide talvolta sono ex campioni o campionesse oppure atleti ancora in attività. E possono essere atleticamente più o meno forti dell’atleta con cui gareggiano oppure completarsi: Silvia Visaggi, ad esempio, ha dichiarato di aver sofferto non poco per tenere il passo di Francesca Tarantello nella frazione di corsa che a sua volta ha stretto i denti per tenere il ritmo di Silvia nel nuoto e nel ciclismo.

Le coppie si formano autonomamente o con l’aiuto e il supporto delle federazioni sportive ma quello che si crea tra l’atleta e la sua guida può nascere solo dall’alchimia tra le persone coinvolte, dalla conoscenza maturata nelle esperienze vissute, nell’empatia, nell’impegno.

Già, l’impegno nel capirsi, nel comunicare sotto sforzo, in condizioni di fatica, di crisi. Perché le relazioni hanno bisogno di cura, di voglia di farle funzionare. Non solo per vincere una medaglia ai Giochi paralimpici!

E ora, alla fine di un’estate in cui lo sport ci ha regalato emozioni, spettacolo, tante storie che ci hanno riempito gli occhi di speranza e ispirazione ci resta da fare ancora una cosa: chiuderli e interrogarci, nel buio, su cosa sappiamo della fiducia.

E se pensiamo di sapere tutto, ripercorriamo le belle favole degli atleti ciechi, delle guide e del coraggio reciproco nel muoversi sul sottile confine che separa il vincere dal proteggere, il dare e il prendersi la responsabilità, il donare ciò che si ha e il prendersi ciò che ci serve. Un esercizio di equilibrio in cui la vista non serve perché, a guidare, è il cuore.

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