Parlare di “emendare” l’informazione su un quotidiano potrebbe sembrare triviale, un po’ come declamare le virtù del cibo sano in mezzo a un Monaldo. Ma quando mi è stato chiesto quale capitolo proporre qui, dal mio libro Seneca tra gli zombie (Feltrinelli) ho avuto pochi dubbi: è proprio il giornalismo che, a mio parere, si trova nella necessità di non assecondare l’horror vacui che l’individuo contemporaneo sperimenta e che cerca di colmare riempendosi di informazioni, narrazioni, cose da fare e da dire, da scrivere e con cui ingozzarsi, solo per non dover pensare in autonomia.

Crisi economiche, pandemia, incertezze e ora il ritorno della guerra in Europa hanno destabilizzato la nostra serenità e, come spesso accade in casi simili, la risposta che abbiamo dato è quella dell’ingordigia: quando la realtà intorno a noi si sfalda, tendiamo ad aggrapparci a tutto quello che ci sembra restituire un minimo di stabilità.

Questo è ciò che ci spinge a incollarci allo schermo per ricevere ogni singolo aggiornamento sui fatti del giorno, a iscriverci a cento newsletter di cui non leggeremo nulla ma che occuperanno il nostro spazio mentale, a riempirci di informazioni che, non sedimentando, altro non faranno che mandare ulteriormente in crisi la nostra capacità di comprendere e analizzare noi stessi in relazione al mondo.

Il problema dell’infodemia

Questo bisogno è però da molto tempo assecondato proprio dal giornalismo che, abbandonando l’informazione ponderata, la discussione razionale e l’inchiesta approfondita, dà sempre più spazio all’opinionismo irriflesso, al chiacchiericcio svergognato e all’editorialismo sfrenato: emendazione è la parola chiave.

Dal lato del lettore, emendare significa selezionare meglio le informazioni in entrata (e di questo si occupa il capitolo che segue). Dal lato del giornalista, si tratta di prendere maggior tempo per dare la notizia, maggior cura nello scriverla pensando anche alle conseguenze, frenando la tentazione di dire tutto e subito e tornando a una filosofia della slow information che smetta di assecondare l’istinto a riempirci di cose inutili rispondendo al vuoto interiore che ci colpisce sempre, oggi come ieri.

Se pensate che il problema dell’infodemia sia nato nella nostra epoca, vi sbagliate di grosso. Certo, forse ha assunto proporzioni diverse, probabilmente mai viste prima, ma la questione del rapporto tra informazione e conoscenza è da sempre sotto la lente della filosofia, e il fatto che sia divenuto sproporzionato in tempi come questi è solo il segno che forse non si è fatto abbastanza per risolverlo.

Il grande fraintendimento alla base della questione è che la conoscenza si riduca all’acquisizione di informazioni. Ci siamo convinti che per “capire” il mondo e i fenomeni che lo compongono basti raccogliere quante più informazioni possibili intorno a una certa questione e, riordinandole, rappresentarle in modo corretto.

L’esempio che viene in mente subito è quello della risoluzione di un delitto: è chiaro che per scovare il colpevole di un omicidio, l’investigatore debba raccogliere indizi, testimonianze e prove, al fine di comprendere quel che è successo, ricostruendo la realtà dei fatti e restituendo una buona ipotesi di accusa. In termini più schematici, Sherlock deve acquisire dati da inserire in un elaboratore programmato a rappresentare il fenomeno e, di conseguenza, a comprendere gli avvenimenti.

Questo è il presupposto che spinge l’attuale dominio dell’informazione e del cosiddetto storytelling: maggiori informazioni possiedi, più storie hai ascoltato, più alta sarà la tua capacità di analisi e comprensione. Purtroppo, nel grande schema delle cose, ciò non è del tutto vero e manca di un pezzo fondamentale.

Le parole di Spinoza

Per capire quale sia quel pezzo dobbiamo tornare indietro nel tempo di circa quattrocento anni, per andare a trovare Baruch Spinoza. Si tratta di un filosofo che, apparentemente, non se la passava molto bene: era stato scomunicato ed esiliato con una violenza inaudita dalla sua stessa comunità, abitava in una catapecchia e mangiava quasi solo zuppa d’avena. Viveva come un eremita, di tanto in tanto visitato da ammiratori, altri filosofi e qualche aspirante adepto di cui lui rifiutava le lusinghe.

Aveva perso la fiducia nell’umanità quando i suoi amici erano stati trucidati nelle strade di Amsterdam in seguito a una rivolta religiosa che prendeva di mira gli atei, considerati pericolosi dalle autorità (guarda caso) sacerdotali. Scriveva molte lettere, parlava poco e sembrava quasi in attesa che qualche cosa accadesse, ma non si sa bene cosa.

Quando ancora le speranze erano vive, Spinoza scrisse un libretto dal titolo Trattato sull’emendazione dell’intelletto, rimasto incompiuto ed eppure fondamentale per capire quale sia il problema di noi contemporanei. Ebbene sì, i filosofi sono soliti fare questo scherzetto: scrivono qualcosa secoli fa e sembra che parlino proprio di noi, oggi.

In questo trattato veniva spiegato come l’essere umano sia spesso preda di pregiudizi provenienti da chissà quali e quante contaminazioni esterne: superstizioni, paradossi, convincimenti e fin troppa immaginazione spingono l’individuo a convincersi di cose assurde e sbagliate. Ma la soluzione non sta nell’aggiungere a questo marasma confuso altre informazioni che possano guarire le storture del pensiero, anzi: si tratta proprio di emendare.

“Emendare” è una parola stupenda. Talmente bella che la uso molto più del consueto sinonimo “ripulire”. A casa mia non ho l’aspirapolvere, bensì l’emendapolvere. Quando piove e sono in auto non attivo il tergicristallo, ma l’emendacristallo. Una parola bellissima, poetica e profonda che significa, appunto, “fare pulizia”, chiarire, rendere trasparente.

E, a pensarci bene, la nostra coscienza è una cosa molto simile a un parabrezza. Provate a immaginare la mente come l’interno di un’automobile: seduto al posto di guida ci sono “io” (non “io”, Rick DuFer, non sono nella vostra testa, almeno per ora), ovvero la coscienza vigile, quella cosa che sento essere “me stesso”, il mio sguardo sul mondo. Questo tizio che guida ha un problema enorme: tutto quello che vede, lo vede attraverso il parabrezza.

E quando quest’ultimo è lercio, perché una tempesta sparge foglie bagnate, rami spezzati, rane volanti e ketchup a gogò, serve la forte azione dell’emendacristallo per tornare a vedere bene la strada, senza schiantarsi contro un platano.

In questa metafora ben poco seria, il parabrezza è la rappresentazione che ci facciamo del mondo: è la mappa che costruiamo, attraverso i dati sensibili e le informazioni che abbiamo a disposizione, per poter capire dove va la strada e seguirla senza troppi incidenti. Il parabrezza è un filtro che non potrà mai essere del tutto trasparente, perché la strada su cui guidiamo è sempre colpita da fortunali, tornado e tempeste: la vita è un percorso accidentato che non riusciamo mai a vedere con perfetta chiarezza e ci lancia addosso un sacco di elementi estranei, rifiuti e cianfrusaglie che oscurano la nostra visione della strada. E così, a volte capita che il parabrezza sia talmente ricoperto di “roba” da rendere totalmente cieca la nostra guida, facendoci brancolare nel buio.

Che cosa sono, quindi, quegli elementi che ricoprono il parabrezza? Be’, per dirla in parole povere, sono le informazioni. O, meglio, sono ciò che il mondo, più o meno casualmente, propone al filtro della nostra coscienza, ai nostri sensi, attraverso l’esperienza.

Alcune di quelle cose che finiscono sul parabrezza possono anche essere d’aiuto: magari ci si stampa sopra un volantino, che ci dice dove si terrà la prossima festa, oppure la foto di una splendida ragazza che attira il nostro sguardo. Ma il rischio è quello di far ricoprire così drammaticamente il parabrezza da rendere impossibile la guida sicura e convincersi: la nostra attenzione, attirata da tutti quegli elementi che finiscono davanti ai nostri occhi, finisce per essere totalmente catturata da ciò che copre il parabrezza e non più dalla direzione della strada.

Verità e ragione

Nel suo Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Spinoza sostiene l’idea secondo la quale in noi esiste già in modo innato l’idea di vero. E se il parabrezza copre in modo incontrollato la vista della strada, quella facoltà innata ne viene offuscata, rendendo falsa la nostra conoscenza.

Uno dei motivi per cui lasciamo che il parabrezza si ricopra è il fatto che la strada ci fa paura. Vedere il sentiero in modo chiaro, seguire l’idea innata del vero, non è una cosa semplice: ci responsabilizza, ci dà la direzione, ma ciò non ci aiuta a seguirla, e spesso le curve da assecondare e le scelte da compiere non sono in linea con i nostri desideri.

Perciò, lasciamo che il parabrezza venga completamente oscurato dalla miriade di informazioni che decidiamo di acquisire acriticamente, riempiendoci di cose superflue e fuorvianti. L’agenda diventa la scusa buona per non agire.

L’altro motivo per cui il parabrezza non viene mai ripulito è che abbiamo confuso la conoscenza con l’informazione, ovvero la strada con ciò che finisce sul parabrezza. E questa è la cosa più drammatica.

Secondo Spinoza, infatti, nell’animo dell’essere umano alberga già la possibilità di trovare la strada giusta, di vedere la verità. Nella sua grande opera, Etica, Spinoza ci dice che la facoltà della ragione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere il giusto sentiero da seguire per comportarci rettamente e non schiantarci con troppa violenza nel percorso della vita.

Secondo il filosofo, non c’è nessuno che possa “insegnarci” la ragione: sarebbe come insegnare a volare a un pipistrello, a respirare sott’acqua a un pesce. La ragione c’è, sta lì, ci permette di capire in profondità come è fatto il mondo, che cosa vuol dire comportarsi in modo corretto, qual è la cosa giusta da fare, come vivere la propria vita. Solo che, presi come siamo a impegnarci, quel che ci circonda finisce per prendere il sopravvento sulla nostra capacità naturale di capire, e la ragione viene soverchiata dalle informazioni.

Veniamo raggiunti da storie, narrazioni, bugie, sermoni, interpretazioni, verità più o meno credibili, fantasticherie, assurdità, cronache e chi più ne ha più ne metta, e in mezzo a tutto questo ci si mette anche la paura di sbagliarci, di fallire, di non raggiungere la felicità, che ci rende superstiziosi. E il parabrezza viene ricoperto, la ragione si fa opaca, non riusciamo più a vedere la strada né a riconoscere la verità. E, gioiosamente circondati di storie bellissime, ci schiantiamo.

L’esempio che Spinoza ci propone è quello dell’interpretazione dei testi sacri. Qualcuno, oggi, tranquillamente potrebbe dire: “Be’, a chi importa di interpretare bene i testi sacri?”. Ma si dimenticherebbe che nel Seicento la questione era veramente centrale nella vita di tutti, e ancor più per Spinoza, che aveva studiato al fine di diventare rabbino.

Informazioni che oscurano

In quell’epoca, la questione di chi possedesse la “giusta” interpretazione della Bibbia, della Torah o di altri testi religiosi decideva chi avesse il potere e chi no. L’autorità religiosa era un affare sociale, politico ed economico di primaria importanza, e la “casta sacerdotale” godeva di privilegi incalcolabili.

Per questo, mantenere nella popolazione l’idea che il rabbino (o il vescovo, il sacerdote, l’imam) possedesse l’esclusiva nella comprensione delle Scritture era una cosa fondamentale per l’ordine sociale costituito. Per questo Spinoza, quando iniziò a diffondere le sue idee diventò una spina nel fianco non da poco, e la spina divenne una bomba quando pubblicò sotto pseudonimo il Trattato teologico-politico, il libro più scandaloso del secolo.

L’idea proposta dal filosofo era che l’autorità religiosa non fosse davvero necessaria per comprendere i testi sacri. Le Scritture, infatti, possono essere tranquillamente lette e interpretate da una mente sufficientemente libera da poter usare la ragione e, attraverso questa straordinaria facoltà, era possibile avvicinarsi più di qualsiasi vescovo o cardinale alla comprensione della parola di Dio.

Secondo Spinoza, tutte le interpretazioni delle autorità erano “roba sul parabrezza”, ovvero informazioni che oscuravano e rendevano opaca la ragione, impedendo alle persone di vedere quella strada che già sarebbe visibile, se solo la mente fosse emendata dalle cose superflue.

Il sermone del sacerdote, la scuola rabbinica, le encicliche e l’interpretazione canonica, tutti questi elementi così fondamentali per soggiogare il popolo all’autorità religiosa, secondo Spinoza erano proprio il motivo per cui così poche persone comprendevano il reale significato dei testi sacri che lui così tanto amava.

Coloro che esigono un lume soprannaturale per intendere il pensiero dei profeti e degli apostoli, sembrano del tutto privi del lume naturale; sono quindi ben lontano dal ritenere che essi abbiano un dono divino soprannaturale.

Il che significa che non può esistere un’autorità investita di qualche facoltà soprannaturale per interpretare i testi sacri redatti da profeti che usavano la loro immaginazione per tradurre i propri pensieri. Per comprendere la verità insita nelle Scritture basta il lume naturale, la ragione, di cui ogni essere umano è dotato.

Capite bene perché nessuno, tra i grandi capi delle religioni europee di quell’epoca, fosse particolarmente entusiasta degli insegnamenti di Spinoza. E capite perché la scomunica che gli comminarono fu (ed è tutt’ora) una delle più violente mai sentite da orecchio umano: «Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal Cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della legge [...]. Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti (circa due metri, ndr), e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno».

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