Quando racconto della mia routine giornaliera a base di social, della mia assillante “dieta digitale”, vengo spesso accolto da facce sorprese, a volte ammirate, a volte stranite. “Ma com’è possibile?”, “ma dove lo trovi il tempo?”, “ma cosa ti piace?”.

Mi capita di farlo parlando delle mie giornate, e di cosa in genere cattura la mia attenzione. O quando, magari in un dibattito pubblico a tema, adotto le decine di tendenze in cui incappo consultando i social network, come tracce utili per provare a comprendere cosa guardano “i giovani” sui loro telefoni.

Per sparigliare, riportare la discussione a terra: “Lo sai che una ragazza di Napoli ha accumulato 270 milioni di visualizzazioni con un video in cui, semplicemente, cambia la pellicola di un iPhone?”. Tocca saperlo.

Un’ora di TikTok, un’ora di YouTube, un’ora di Twitch, un bel monte-minuti di Instagram, Reddit, Discord, Telegram: da quando ho deciso di capire se davvero abbia senso parlare di Generazione Z (quella dei nati fra il 1997 e il 2012) almeno dal punto di vista delle tendenze contenutistiche online, ho provato a seguire questo regime a base di piattaforme digitali di varia estrazione e importanza.

Dove stanno andando?

L’ho fatto per la mia newsletter “zio”, sulla quale da più di tre anni provo a indagare su quello che accade nella parte più giovane e – talvolta – indecifrabile dei social network, e che è stata spunto per Sei vecchio (febbraio 2023, nottetempo), il mio primo libro. E l’ho fatto perché i contenuti online ci parlano più facilmente, quantitativamente e qualitativamente, di dove stanno andando i più giovani di noi. E con loro tutta Internet.

Dove sta andando, per esempio, un venticinquenne campano che decide legittimamente di trasmettere in diretta sul web il proprio sonno a favore di videocamera, e di farsi torturare dagli utenti a casa con rumori molesti e altre atrocità a distanza, nel tentativo di arrivare a guadagnare anche migliaia di euro?

Il suo nome è GSkianto, ed è uno dei più famosi “streamer” di Twitch – piattaforma di Amazon che ti permette di mandare in diretta più o meno ciò che si vuole, come fosse una specie di tv. Da tre o quattro anni mette in piedi titaniche maratone in cui trascorre in live giornate intere anche per cinquanta, sessanta giorni di seguito, tra donazioni economiche e qualche insulto da parte di migliaia e migliaia spettatori. Dove va?

Dove sta andando Saverio Riccelli, giovane pastore calabrese che ogni giorno, da più di un anno, saluta allo stesso modo la sua capra “Manuele” su TikTok – il social di riferimento tra i più giovani – facendone una specie di divinità acclamata da un pubblico vastissimo per un pugno di mesi, salvo accorgersi amaramente di quanto la fama in rete possa essere casuale quanto effimera e persino crudele?

O Donato De Caprio, passato in pochissimo tempo dall’essere salutato come “il salumiere di TikTok” grazie ai suoi panini al prosciutto, al licenziarsi dal lavoro tra critiche e occhi lucidi, e infine aprire una sua attività nei Quartieri Spagnoli assediata quotidianamente da centinaia di ragazzini provenienti da ovunque? Dove stanno andando tutti?

La ricerca del content

Nella stessa direzione, forse, per quanto possano apparire distanti queste traiettorie. Quella della ricerca del content, quel qualcosa che caratterizzi la propria offerta da creatore di contenuti (un tempo si sarebbe detto influencer) e la renda appetibile, genuina. Quella della costante tensione all’intrattenimento, spesso addirittura casuale – così casuale da diventare inimitabile. Quella della capacità di monetizzare su tutto, persino sul proprio risvegliarsi di soprassalto, sulla propria quotidianità lavorativa esposta davanti a milioni di persone.

In questo scenario contenutistico, in cui fama e guadagni suonano così accessibili da sembrare quasi ovvia conseguenza del solo esistere, paiono altrettanto lineari e scontati gli studi che ci dicono che il 31 percento dei ragazzi rispondenti a un sondaggio di SignalFire da grande vorrebbe diventare youtuber, più di tutto. Più dell’immortale astronauta, relegato all’11 per cento delle preferenze.

O che, sempre secondo gli stessi dati, più di 50 milioni di persone nel mondo si considererebbero ormai content creator – chi i contenuti online li produce, con un linguaggio e un’attitudine riconoscibile, alla ricerca della notorietà virtuale. O ancora, secondo una ricerca di InsideOut Development, che i giovani di questo decennio si affaccerebbero al mondo del lavoro già pienamente convinti di riuscire a raggiungere il successo sin da subito, molto più di chi li ha preceduti.

Da questo scenario tanto uniforme, negli ultimi anni è nato e diventato sempre più rilevante un genere di produzione online a sfondo fortemente motivazionale, non lontano dagli approcci yuppie e dell’ossessione per la crescita individuale, ma aggiornati in termini di messaggi, obiettivi ed estetica.

Si tratta delle pagine social e dei video dedicati al mindset, teoria risalente ai testi della psicologa Carol Dweck, ma che in rete verrà travisata perdendo la sua derivazione accademica, finendo per connotare una generica predisposizione mentale verso il successo a tutti i costi.

All’interno di questo ciclo di contenuti si possono trovare parti di interviste con l’imprenditore che racconta come abbia fatto a emergere, consigli per la crescita personale ed economica, citazioni epiche da parte di rapper che ce l’hanno fatta e youtuber che dicono di aver superato la depressione, arringhe di growth hacking evangelist e santoni dell’investimento. Ciechi elogi agli imprenditori alla Elon Musk.

Un repertorio che sembra esser uscito fuori nel decennio sbagliato, ma che è diventato man mano rilevante nell’universo contenutistico affine alla Gen Z, trasformandosi in una specie di format d’intrattenimento dal linguaggio ultra moderno, in grado però – nella costante promozione di messaggi talvolta ambigui che ti ricordano che ce la devi fare e che è necessario svegliarsi due ore prima degli altri per lavorare di più – di offrire una visione del mondo e della società iper-liberista, predatoria, a tratti machista e tossica. Come nel caso della teoria del “maschio sigma”, formulata una decina di anni fa su un forum di discussione online di militanti americani di estrema destra, e oggi diventata sia nozione su cui fare ironia, sia un impianto teorico basato sull’epica del “lupo solitario” senza regole spesso nascosto all’interno di contenuti apparentemente innocui.

Ecco: quando racconto di questo, di questa mia routine quotidiana a base di social, della galleria di protagonisti di Sei vecchio, la cosa viene spesso accolta da facce sorprese, a volte ammirate, a volte stranite – dicevo. Un’ora di questo, un’ora di quello, poi invito gli altri ad aprire le impostazioni del proprio telefono, e ad andare alla voce “tempo di utilizzo” per scoprire quanti minuti trascorrono consultando queste app, e come siano fatte le loro diete digitali. Di solito non sono tanto diverse dalla mia, alla fine dei conti: e forse è lì che stiamo andando.

© Riproduzione riservata