La sirena si insinua lentamente nei suoi sogni – sogni confusi, frenetici, vischiosi – ma a svegliarlo è lo strattone, così forte da spedirlo giù dalla branda.

«Che succede?», mormora Horst, la bocca impastata come dopo una bevuta. 

Si massaggia una spalla, la fronte aggrottata. Intorno a lui, ombre veloci corrono da sinistra a destra, tutte nella stessa direzione. 

«Alzati, accidenti! È un’emergenza!», sbraita una voce familiare.

Una cosa grossa in città

Un’emergenza. La mente di Horst fatica a districarsi tra i ricordi sognati e i ricordi reali. Roghi, esplosioni, una fuga di gas. Una legione di soldati senza volto che marciano decisi verso il nulla.

«Horst!», grida di nuovo Ferenc, sollevandolo da terra con la sua forza belluina. «La sirena!».

Horst scuote la testa come a scrollarsi di dosso gli ultimi brandelli di sonno. «Ci sono», dice mentre gli occhi si riadattano al mondo. E poi di nuovo: «Che succede?».

«Una cosa grossa, in città. Andiamo».

Meno male che ho dormito vestito, pensa Horst ficcando i piedi negli scarponi aperti. Li allaccerà una volta in viaggio, come insegnano al corso. «Ma perché chiamano noi?».

«Secondo te? Santo Dio, sei la recluta più lenta della storia. Muovi il culo. Stasera siamo tutti in ballo». 

In fondo alle scale, dove di solito attende una dozzina di autopompe, adesso ne resta solo una. Gli altri pompieri sono già a bordo, aspettano seccati. «Ehi Horst, ce l’hai fatta! Ma hai finito colazione?».

«Al diavolo, Lukas», risponde Ferenc. «È il suo primo giorno, era appena andato in branda». 

«Un tè caldo? Del latte con biscotti?».

Horst ormai è sveglio e padrone di sé, per cui sale sul veicolo senza rispondere. Sa che aspettano solo quello per scaricargli addosso la loro adrenalina. Tutte le unità fuori nello stesso momento non è cosa da poco.

Come un falò

(AP Photo)

L’autopompa sibila sul cemento della rimessa ed è già in strada. Berlino, alla fine di febbraio, è nera e gelida come il fondo dell’oceano. Le vie sono deserte da Charlottenburg ad Alexanderplatz, dove inizia a vedersi un po’ di movimento, ma un movimento scarso, per la stagione e per il giorno, un lunedì sera. Girano soltanto qualche taxi e gli autobus a due piani, vuoti e indolenti come vecchi assonnati. L’autopompa li supera tutti, suonando senza sosta la sua campanella. 

All’altezza del fiume altre campanelle si uniscono alla loro, e il buio invernale si rischiara in direzione del centro, o forse del grande parco che si estende appena al di là, un tempo riserva di caccia e ora rifugio di amanti e senzatetto. «Un incendio al Tiergarten?», chiede Horst, immaginando un fuocherello per scaldarsi sfuggito di mano e divampato fino a lambire lo zoo. Le bestie impazzite, il canale luccicante di scintille.

Ferenc scuote la testa, lo sguardo tetro e concentrato.

Ma che succede?, si chiede di nuovo Horst. Che cos’è che sta bruciando?

Unter den Linden corre rapido sotto le ruote, poi ecco Pariserplatz e la porta di Brandeburgo, così grande nella fama, così piccola a trovarsela davanti. Alzando gli occhi oltre le colonne e le statue diventa chiaro che il bagliore non proviene dal parco, ma da un punto più a destra, dietro l’ambasciata francese. Poi folate di vento caldo, e a ondate sottili la cenere. Allora, con un brivido, Horst capisce.

Platz der Republik è illuminata a giorno: decine di mezzi, forse sessanta, puntano fari e riflettori verso il luogo dell’incendio, ma sono le fiamme a illuminare la folla di berlinesi accorsi per vedere. È il palazzo del Reichstag a bruciare nella sera come un falò di fine estate, alimentato dalla brezza che sempre spira da nord. È il parlamento.

«Santo Dio», dice Ferenc saltando giù dall’autopompa. «Hai mai visto una cosa così?».

Horst ha la bocca troppo secca per rispondere. Si limita a scuotere la testa, gli occhi rapiti dallo sfacelo. Certo che non ha mai visto una cosa così: nessuno l’ha vista. I parlamenti vanno in fiamme solamente nelle guerre, e la Germania vive in pace ormai da tempo.

Dai mezzi disposti a raggiera nella piazza si protendono decine di manichette. Lavano la facciata imponente nel tentativo di soffocare le fiamme, ma è chiaro persino a Horst che l’impresa è disperata. Neanche le unità natanti, che pompano acqua dalla Sprea, possono granché contro tanta furia. Il fumo si leva così alto sopra la cupola di vetro e ferro da sembrare una tromba d’aria.

Come faranno i parlamentari, adesso?, si chiede Horst. Un pensiero sciocco – un edificio è soltanto un edificio – ma per un attimo quel rogo lo colpisce come un segno di sventura. Come se insieme al palazzo, possente e fragilissimo, fosse in fiamme la Repubblica. 

L’inizio e la fine

A pochi metri da lui, un ufficiale riempie fogli di calcoli mentre studia la cupola, ripetendo a mezza voce: «Forse regge. Forse regge». Tutto intorno, oltre i cordoni di protezione, centinaia di uomini e donne tacciono insieme, le parole annullate dal tremendo spettacolo. Poi nella piazza compaiono due auto, due Mercedes nere e lucide. Tagliano in due l’intera scena, vanno a fermarsi in un angolo protetto, lo stesso in cui si è assiepata la stampa. Ne scendono tre uomini che Horst non riesce a vedere. Una grandine di flash, domande, mani alzate. Intorno a loro si forma un capannello, il capo dei pompieri arriva di corsa. Seguono ordini secchi, e Horst è inviato con la sua squadra dentro l’edificio.

«Come scorta», brontola Ferenc, che vorrebbe stare fuori a combattere il fuoco. Horst è d’accordo: che bisogno c’è di far correre un simile pericolo a dei civili?

Poi nell’atrio del Reichstag i civili si voltano e Horst trova la risposta. Il primo dei tre è un uomo basso e smunto, il volto da ratto, gli occhi lucidi come ossidiana. Il secondo, più alto e corpulento, ha un sorriso diabolico non privo di bellezza. Horst non conosce i loro nomi, anche se li ha già visti su qualche giornale. Politici, gli pare. Nazisti.

Il terzo uomo, invece, lo conosce, lo conosce eccome. C’è qualcuno nel paese che non abbia incontrato il suo volto prima o poi? Quando si volta verso di lui è impossibile confondersi: gli occhi azzurri come il ghiaccio, i baffetti smozzicati alla Charlot. Adolf Hitler, il nuovo cancelliere, è venuto a ispezionare di persona il rogo.

«Avete idea di come è successo?», domanda, alzando la sua famosa voce metallica.

«Un complotto comunista», risponde l’uomo corpulento. «Senza dubbio».

Hitler annuisce, inspira a fondo l’aria viziata, ed è soddisfazione quella che Horst intravede sul suo volto? È compiacimento? 

«Oggi si apre una nuova, grande era nella storia tedesca», dichiara solenne il cancelliere, le fiamme che gli ballano negli occhi come demoni. «Voi tutti ne siete testimoni. Questo incendio è soltanto l’inizio». 

Un attimo dopo, come a rispondergli, due poliziotti compaiono da un corridoio ancora intatto, spingendo e strattonando un giovane a petto nudo.

«L’abbiamo trovato!», dichiara il più alto in grado. Con la mano libera sventola una scatola di cartoncino lunga e stretta.

Horst stringe gli occhi per inquadrarla: fiammiferi.

«Siete sicuri...?», inizia l’uomo smunto, ma proprio in quell’istante il vetro della cupola manda uno scricchiolio sinistro, come il lamento di un animale ferito.

«Sta per crollare!», grida Ferenc.

«Portate fuori il cancelliere!».

Richiamati alla realtà, politici e poliziotti si affrettano verso l’uscita, passando a meno di un metro da Horst, che per un attimo si trova occhi negli occhi con il giovane a petto nudo.

Tristezza, paura, sconforto, coraggio. Non gli occhi di un colpevole, ma di un martire.

E mentre gli altri pompieri si preparano a combattere le fiamme, nel cuore di Horst, ghiacciato anche al centro dell’inferno, si fa largo una certezza.

Questo incendio non è soltanto l’inizio. 

Questo incendio è già la fine.


Fabiano Massimi è l’autore del thriller L’angelo di Monaco, che indaga sulla morte della nipote di Hitler, e del romanzo storico Se esiste un perdono, in cui si narra la storia di Nicholas Winton, lo «Schindler britannico». All’Incendio del Reichstag, misterioso punto di svolta del XX secolo, ha dedicato I demoni di Berlino. Tutti Longanesi.

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