Ci sono settimane in cui si crea una certa serendipità nella mia vita: sarà che si sta avvicinando il Natale e con lui gli spiriti di Kate Beckinsale e John Cusack sui pattini, sarà che le ossessioni sempre più spesso mi sfuggono di mano e assumono una loro autonomia, fatto sta che negli ultimi sette giorni vedevo Berlino ovunque. Nei ricordi del mio viaggio di maturità segnalati da Facebook fuori stagione, nei post sponsorizzati di interni berlinesi minimal e luminosi su Instagram, in un film di Billy Wilder che si chiama Uno, due, tre!, e soprattutto nel libro che ho letto, La chiave di Berlino (Einaudi 2023) di Vincenzo Latronico.

Epica generazionale

Quest’ultimo, com’è evidente dal titolo, non è stato un incontro fortuito e magico, non mi ha sorpreso con la sua berlinesità, ma sono convinta abbia chiamato a sé le altre coincidenze. È un piccolo libro, ma denso di cose. È memoir, mappa sentimentale, racconto generazionale, guida turistica, trattato filosofico. Si tiene tutto insieme intorno alla città – già di suo epica e letteraria – che Latronico, come molti altri della sua (nostra) generazione, ha scelto come casa elettiva nel 2009, a 24 anni, di nuovo nel 2020 dopo una pausa di riflessione iniziata nel 2014, e ha lasciato infine quest’anno, mentre usciva La chiave di Berlino (che a questo punto si sarebbe potuto chiamare anche Addio a Berlino, non fosse per il romanzo con lo stesso titolo di Isherwood, che comunque campeggia a sua volta in queste pagine).

Le passeggiate senza meta, i rave, la gentrificazione, gli artisti, la ricerca immobiliare come dimensione dell’anima: la Berlino di Latronico è uguale e diversa a quella di Isherwood, uguale e diversa (più diversa che uguale) a quella di Wilder e di Uno, due, tre!, dove comunque la giovane americana figlia di un dirigente della Coca Cola arriva a Berlino Ovest da Parigi e ancora sulla pista dell’aeroporto dichiara di essere elettrizzata: Berlino è la città in cui succede tutto.
Un bisogno, quello di trovarsi dove succede tutto, che appartiene molto ai vent’anni e va scemando via via, talvolta mostrando ancora i suoi strascichi nell’arco dei trenta, diventando spesso ridicola ostinazione dopo i quaranta. «L’età e il privilegio inducevano a credere che la vita fosse qualcosa che fai, non qualcosa che ti capita» scrive Latronico del suo arrivo nel grande vuoto di Berlino, facendomi venire voglia di tatuarmi questa frase in fronte.

«Che fatica» pensavo invece io, da sempre vecchia ciabatta, leggendo i resoconti dei rave di 72 ore in vecchi depositi abbandonati e dei sex party e delle droghe che compongono il quadro dell’esperienza berlinese (di Latronico ma un po’ di tutti, è questo il punto), che fatica tutta questa coolness, che fatica avere vent’anni. «Che bravo» concludevo nella più totale ammirazione dell’occhio clinico dello scrittore che indaga la città e i suoi abitanti occasionali, e dice “io” per raccontare il mondo, e non viceversa.

La metamorfosi

Non mi vengono in mente molti autori italiani che abbiano concettualizzato i millennial meglio di lui. Lo aveva già fatto con Le perfezioni, dove sempre in ambientazione berlinese aveva messo a fuoco il grande tema identitario della nostra generazione: la casa, le cose. E infatti Instagram deve aver sentito odore di Latronico nell’aria questa settimana, mentre decideva di propormi ogni giorno salotti di appartamenti a Berlino che potrebbero corredare i suoi libri.

Vecchi parquet usurati al punto giusto fanno da base a divani color crema e grandi tappeti berberi, piccole lampade Artemide danno un tocco di colore e fanno luce sulle collezioni di vinili comprati nei mercatini dell’usato. Sono le immagini di una vita che non ci possiamo permettere e ci ostiniamo a inseguire, arredando il nulla. E intanto pensavo che quelle case berlinesi potevano essere ovunque, anche a Parigi o a Milano o in qualsiasi altra città in cui noi pezzenti con pretese ci affanniamo alla ricerca di un’estetica che sia più gradevole della nostra realtà. Vieni con me, bella sedia di Marcel Breuer, aiutami a sedare la paura del fallimento. Che cos’è una Cesca se non un grosso cerotto di paglia viennese?

In La chiave di Berlino si racconta anche questa metamorfosi, della graduale e forse inevitabile perdita della specificità di una città che è sopravvissuta a molte cose, ma non al turismo e all’hipsterismo selvaggio di chi negli anni più recenti l’ha occupata al grido di “solfiti cattivi”. Il mito della controcultura berlinese si è fatto mainstream (estirpando quindi il “contro” dalla controcultura) e certi quartieri diventano sempre più indistinguibili dai loro cugini in altre metropoli occidentali.
Eppure Berlino mantiene un’energia un po’ diversa e secondo la scrittrice americana Lauren Oyler, citata da Latronico nel libro, rimane la migliore città al mondo in cui vivere, «perché nonostante stia peggiorando, tutte le altre peggiorano di più».

Ma questa energia non sarà un’allucinazione collettiva? Per Latronico è questione di storie: «In un’epoca in cui il conformismo e l’uniformità ci fanno pensare alle dittature o al consumismo cieco del Novecento, il modo migliore di certificare che qualcosa è speciale è mostrarlo autentico, cioè raccontarne una storia» scrive.

«È la storia che è stata raccontata a me, nel 2009, sulla città povera e sexy, piena di artisti e di vuoto. È la storia che riecheggia nei libri che ho citato. È la storia che viene raccontata oggi ai programmatori che accettano un salario più basso che negli Stati Uniti per godere dell’atmosfera vibrante e trasgressiva della città. È la storia di cui ho sentito un bisogno disperato da quando mi sono ritrasferito a Berlino nel 2020, non appena ho avuto la percezione che quella che mi aveva attratto lì dieci anni prima non era più vera. È il 2023. Non l’ho ancora trovata».

Chissà che non la trovi tra i fori di una Cesca.

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