Multinazionali così potenti da decidere le sorti di intere nazioni. Imprenditori dagli appetiti insaziabili e dalle tendenze bellicose, poco inclini alla regolamentazione. Istinti imperialistici mai del tutto sopiti, pronti a riaffiorare al riproporsi di condizioni favorevoli. William Dalrymple, storico scozzese e co-direttore del Jaipur literature festival, il più importante festival letterario di Asia Pacifico, ripercorre la trama della sua ultima fatica letteraria tradotta in italiano, Anarchia (Adelphi).

Un poderoso quanto avvincente volume dedicato all’inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie orientali, e di come questa sia riuscita a detronizzare il potente Impero Mughal, al tempo (1756-1803) padrone incontrastato del vasto subcontinente: «Al cuore del libro ci sono due aspetti. Il primo riguarda la necessità di ricostruire la storia coloniale dell’India. Stiamo iniziando a comprendere fino che punto lo sfruttamento e il saccheggio dell’India sia servito quale base per la costruzione dell’Europa, in particolare della Gran Bretagna», premette lo storico. «Soprattutto, è il racconto di come una potente corporation possa cambiare il corso della storia. Ci è stato insegnato che il corso di eventi passati è stato guidato dalle scelte delle nazioni e dalle decisioni dei loro politici. La verità è che la storia ha già provato che alcune multinazionali possono essere più potenti e sicuramente più ricche delle nazioni stesse».

Responsabilità coloniali

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Fin dalle prime pagine, Dalrymple mette in chiaro il suo punto di partenza: non solo la conquista britannica dell’India va considerata «il supremo atto di violenza aziendale nella storia del mondo», ma è bene sfatare un mito: ad attuare lo spezzettamento e la presa dell’India non è stato il governo britannico. La transizione al colonialismo, scrive, è avvenuta per mano di una società privata, responsabile solo nei confronti dei suoi lontani azionisti e pericolosamente non regolamentata.

All’aspetto quasi modesta, a osservare il suo discreto ufficio (sole cinque finestre per due piani di palazzo) nel cuore di Londra, la Compagnia è stata fondata nel 1599, più o meno nello stesso periodo in cui «William Shakespeare ponderava una bozza di Amleto», ricorda Dalrymple. A quel tempo, mentre l’Inghilterra era una piccola nazione agricola non particolarmente agiata, la popolazione indiana contava 150 milioni di abitanti, rappresentava un quinto del totale mondiale e da sola produceva circa un quarto della manifattura globale: una potenza industriale mondiale, insomma, leader nel settore tessile. Non a caso, l’imperatore Mughal era di gran lunga il monarca più ricco del mondo.

L’avvio delle operazioni della Compagnia è avvenuto come da manuale per una start-up: modesto, ma con margini di crescita. Piuttosto che competere con la Compagnia olandese delle Indie orientali, ha deciso di rivolgere la sua attenzione all’India per concentrarsi su settori meno competitivi e più promettenti, ovvero cotone fino, indaco e chintz: «Ha traghettato l’oppio a est, verso la Cina, mentre a ovest spediva tè cinese nel Massachusetts: a Boston la ribellione che ha portato alla guerra d’indipendenza americana è stata anche legata al timore che la Compagnia saccheggiasse le Americhe come aveva fatto in India», spiega Dalrymple.

Il suo statuto di fondazione la autorizzava a “fare la guerra”, aspetto che l’avrebbe portata a evolversi da una società commerciale a forza di sicurezza dotata di un potente esercito in grado di conquistare tutta l’India: «La transizione dell’India al colonialismo, in altre parole, è avvenuta per mano di una società a scopo di lucro, che esisteva interamente allo scopo di arricchire i suoi investitori. Per la prima volta un’azienda internazionale si è trasformata in una potenza coloniale aggressiva, e ha iniziato ad ammassare un esercito in gran parte costruito con soldati indiani, pagato con denaro preso in prestito dai banchieri indiani». Le guerre portate avanti dalla Compagnia e la spoliazione di Bengala, Bihar e Orissa, hanno fomentato enormemente i disordini, gettando (da qui il titolo) nell’anarchia anche regioni molto distanti da Delhi.

Pratiche di lobbying

Ma come è riuscita un’impresa guidata in origine da bucanieri ed ex pirati dei Caraibi ad arrivare a tanto? L’arrivo e l’ascesa della Compagnia hanno coinciso, da un lato, con il fratturarsi dell’India Mughal in molti piccoli stati in competizione tra loro, spiega Dalrymple. Dall’altro, gli europei potevano contare su un vantaggio importante: le innovazioni militari di Federico il Grande. Soprattutto, a pesare è stata l’invenzione di una società per azioni, che ha consentito alla Compagnia delle Indie orientali di raccogliere ingenti somme di denaro per iniziative rischiose. Nel fare ciò, altro aspetto fondamentale, ha goduto di un grande sostegno da parte del parlamento britannico.

«Probabilmente è stata la Compagnia delle Indie orientali ad aver inventato le pratiche di lobbying aziendale, visto che i dirigenti hanno usato la propria ricchezza per acquistare sia i parlamentari sia seggi per se stessi», riflette lo storico. «Avvocati, lobbisti e azionisti lavoravano a loro volta per influenzare e sovvertire la legislazione del parlamento a favore della compagnia». Il parlamento inglese ha infatti sostenuto più volte le azioni della Compagnia, al punto di portarla a rappresentare la metà del commercio britannico – ovvero, un’azienda “troppo grande per fallire”. Difatti, quando si è rivelata inaspettatamente vulnerabile alle incertezze del mercato, è stata salvata nel 1773, anno nel quale il 40 per cento dei parlamentari di Sua Maestà deteneva azioni della Compagnia.

«Pensiamo a Facebook, Google, Tesla. Elon Musk ha ora il potere di cambiare il corso della politica americana. Le più grandi multinazionali oggi hanno redditi paragonabili a nazioni intere. Riconoscere che ci fosse una società con il potere di creare o distruggere una nazione, già nel Diciottesimo secolo, è terribile e straordinario».

Avvertimenti sul potere

India Independence: Setting of the flag on the India House in London on Aug. 15, 1947. (AP Photo) ---Indien Unabhaengigkeit: Flaggenhissung auf dem Indien-Haus in London am 15. August 1947. (AP Photo)

Nel suo epilogo, Dalrymple sostiene: «La Compagnia delle Indie orientali resta tuttora il più ominoso avvertimento della storia sulla possibilità di un abuso di potere da parte delle grandi società – e sui mezzi insidiosi con cui gli interessi degli azionisti possono in apparenza diventare quelli dello stato». La battaglia di Plassey del 1757, grazie alla quale la Compagnia ha ottenuto il controllo del Bengala, è presentata da Dalrymple come un «colpo di stato di palazzo». I banchieri bengalesi avevano pagato l’azienda inglese oltre 3 milioni di sterline (l’intero prodotto interno del Bengala) per spodestare l’odiato Nawab del Bengala.

Dalrymple ci ricorda già dalle prime pagine che una delle primissime parole indiane entrate nella lingua inglese è stata “loot”, bottino. Ma il suo racconto si conclude con la conquista di Delhi da parte della Compagnia, nel 1803, anno in cui la società poteva contare su un esercito privato di quasi 200mila uomini (il doppio dell’esercito britannico) e disponeva di più potenza di fuoco di qualsiasi altra nazione d’Asia: «È necessario guardare alla storia della Compagnia come un avvertimento sul potere delle grandi multinazionali. È stata nazionalizzata nel 1858, ma per gran parte del mio libro racconto di come sia stata in grado di imporre la propria volontà allo stato e al legislatore».

I parallelismi con l’epoca moderna non mancano: «Pensiamo all’Anglo-persian oil in Iran, alla United fruits in Guatemala, alla campagna condotta in Cile dalla International telephone and telegraph per la cacciata di Salvador Allende negli anni Settanta. Pensiamo all’influenza della Exxon mobil sulla politica estera del governo americano in Iraq. E anche le moderne corporation possono trasformare il loro interesse nell’interesse dello stato».

Sebbene non abbia equivalenti odierni, la Compagnia è stata, secondo lo storico, un prototipo per molte corporation moderne: «Se la storia ci mostra qualcosa, è che imperialismo e capitalismo ancora camminano di pari passo».

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