A 52 anni, Volodymyr non si sarebbe mai immaginato di finire sotto le armi. Ma una mattina del settembre 2022, i reclutatori militari del Te-tse-ka presentarono a casa sua, in un piccolo villaggio dell’Ucraina occidentale. Si misero due alla porta di ingresso e uno sul retro che dà sull’orto, per evitare che se la svignasse. Gli consegnarono in mano l’ordine di presentarsi alla visita medico militare.

Quella sera, in casa, ci fu una gran discussione. Nadia, sua moglie, diceva che non sarebbe dovuto andare. Cosa ne sarà di me se ti succede qualcosa?, gli diceva. Non ti presentare alla visita, fatti nascondere da tuo cugino. A Volodymyr sembravano piani fantastici. Farsi nascondere dove? Suo cugino viveva da solo in città e usciva soltanto nel fine settimana, quando, diceva, il Te-tse-kà non lavora.

Se si fosse chiuso in casa con lui, non avrebbe più potuto lavorare e come avrebbe fatto allora ad aiutare Nadia? E all’orto e alle barbabietole chi ci avrebbe pensato? Ma a Nadia queste considerazioni non le faceva. Si limitava a guardarla, dietro gli spessi occhiali. Avrebbe voluto calmarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, ma dopo trent’anni passati insieme, sapeva che a interromperla avrebbe solo peggiorato le cose.

Quando lei capì che non c’era modo di smuoverlo, passò a insultarlo. Perché ti sei registrato al reclutamento? Perché hai aperto la porta questa mattina? Perché devi sempre fare tutto come ti dicono di farlo? Volodymyr, nel frattempo, pensava al cugino, che tutte queste cose non le aveva fatte e ora viveva come un recluso in una soffitta.

Poche settimane dopo l’invasione e la chiusura delle frontiere, era venuto a dirgli che un amico di un amico conosceva uno zingaro, contrabbandiere di sigarette, che per 100mila grivnie poteva portarli in Romania, attraversando i Carpazi e il fiume Tibisco. Era uno dei discorsi bislacchi, tipici di suo cugino. Nessuno dei due aveva 100mila grivnie. E cosa avrebbe fatto Volodymyr in Romania? Che ne sarebbe stato della casa e dell’orto?

Dal Donbass alla Podolia

L’unica volta che aveva pensato seriamente a lasciare l’Ucraina, Volodymyr, non ci aveva pensato per sé. Erano le prime settimane di guerra e sua figlia Irina era tornata a casa, sfollata da Kiev sotto assedio. Irina aveva studiato all’università, filologia, parlava polacco ed inglese e Volodymyr avrebbe voluto che portasse la mamma fuori dal paese. Lui avrebbe potuto badare alla casa fino a che le cose non fossero state più tranquille. Ma non riuscì mai ad affrontare l’argomento.

Appena arrivata al villaggio, Irina aveva messo subito in chiaro che nessuno di loro poteva lasciare il paese in un momento simile e si era messa subito a tessere reti mimetiche per il fronte e a raccogliere donazioni per l’esercito insieme a un paio di mogli di soldati. Nadia, sua moglie, non approvava, ma nemmeno commentava. Ad aprile, quando i russi si ritirarono da Kiev, Irina tornò nella capitale.

Volodymyr non aveva paura all’idea di arruolarsi. Pensava alle preoccupazioni pratiche. Quante volte sarebbe potuto tornare a casa, quanti soldi avrebbe potuto mandare a Nadia, il lavoro nell’orto e al campo non sarebbe stato troppo per sua moglie? Aveva fatto la naia quando c’era ancora l’Unione sovietica, l’ultimo anno in cui ci sarebbe stata, a dirla tutta.

In una foto dell’epoca appare quasi identico ad oggi: una gran testa con capelli cortissimi, occhiali spessi, braccia lunghe, magro e un poco ingobbito, con l’uniforme che sembra troppo larga per il suo fisico esile.

Se la ricorda come un’esperienza in cui l’importante era stare lontano dai soldati più anziani, da quelli che rubavano e da quelli che bevevano. Lo avevano picchiato, un paio di volte, ma niente di grave. Dopo 18 mesi era tornato a casa.

Volodymyr era nato in una città mineraria del Donbass, dove la famiglia si era trasferita per lavoro. Sotto le armi, suo padre aveva imparato a fare l’elettricista, mestiere che aveva passato al figlio. Dopo vent’anni di lavoro in miniera, al momento dell’indipendenza, il padre aveva messo da parte abbastanza soldi per comprarsi un campo nel villaggio dov’era nato, in Podolia, una regione povera, agricola e anonima, tra l’Ucraina centrale e quella occidentale. Finita la naia, Volodymyr era tornato a vivere con loro.

I successivi trent’anni di storia Ucraina volarono distanti sopra la testa di Volodymyr. Campavano bene con il loro campo di barbabietole e con i suoi lavoretti da elettricista nelle case dei vicini e nelle altre fattorie. La politica li sfiorava solo in rare occasioni. A un certo punto, per via di uno dei suoi piani strampalati, il cugino si fece coinvolgere con il Partito delle regioni e, a forza, di parlarne riuscì a convincere Volodymyr a partecipare a qualche riunione. Alle presidenziali del 2010, Volodymyr votò per il filorusso Yanukovich, pensando che dopotutto non poteva far peggio di quelli che erano venuti prima – la crisi economica in quegli anni stata dura e non era stato facile mettere da parte i soldi per mandare Irina a studiare a Kiev.

Con la rivoluzione di Maidan, suo cugino passò dall’altra parte, ma questa volta Volodymyr ne aveva avuto abbastanza di politica. Irina, la figlia, passò invece l’inverno del 2013 a protestare in piazza a Kiev – Nadia era preoccupata, a Kiev si sparava, e diceva che Volodymyr avrebbe dovuto fare qualcosa. Ma cosa? Nel 2014, Volodymyr votò per il nazionalista Poroshenko, perché, pensò, non avrebbe potuto fare peggio di quelli che c’erano prima. Cinque anni dopo, per la stessa ragione, votò Zelensky. Poi, una mattina di settembre, l’Ucraina venne a bussare alla sua porta.

I “nonni” nell’esercito

La visita medico-militare era fissata per la mattina dopo. Alla caserma non c’erano ragazzi, ma soltanto uomini maturi. Volodymyr scoprì di essere il più vecchio, ma non quello messo peggio – lui almeno non si portava dietro un enorme pancia e beveva meno dei suoi coetanei. Quasi nessuno fu dichiarato inabile al servizio e parecchi ricevettero l’abilitazione parziale al servizio – cioè potevano essere impiegati solo in seconda linea. Volodymyr ricevette l’abilitazione completa.

«Ma non preoccupatevi, nonno», gli disse un ufficiale, in Ucraina si dà del voi anche ai propri nonni, «avremo cura di voi». C’era buon umore in caserma. Era la metà del settembre 2022. A sei mesi dall’invasione, l’esercito stava ricacciando i russi da Kharkiv e le truppe ucraine avanzavano verso Kherson. «In sei mesi vi rimanderemo tutti a casa», dicevano gli ufficiali.

Almeno una delle due promesse venne mantenuta. Per via della sua età e della sua miopia, Volodymyr venne assegnato a una compagnia logistica. Trovò ironico che proprio a lui, che senza occhiali non vedeva a un palmo dal naso, dessero da guidare un camion.

Avrebbe dovuto ricevere un mese di addestramento prima di entrare in servizio, ma dopo due settimane gli dissero che a est c’era bisogno di autisti e lo spedirono al fronte. Ai primi di ottobre, guidava un camion che entrava nella città di Lyman, appena liberata dai soldati dell’81esima brigata aviotrasportata.

L’intero esercito sembrava in festa in quei giorni. Correva voce che cinquemila russi fossero stati presi prigionieri. Irina era entusiasta e gli scriveva spesso. Volodymyr le spedì una fotografia scattata nel centro della città liberata dove lo si vede insieme a un suo vecchio compagno di naia, ora sergente nell’81esima. Volodymyr appare identico alla foto di trent’anni prima, solo invecchiato: stessa grande testa, stessi occhiali, stessa uniforme che sembra andargli troppo larga. Irina gli rispose con il link a un post su Facebook in cui scriveva che suo padre aveva contribuito a cacciare gli “orchi”, cioè i russi, da Lyman.

Entrare in una città appena liberata fu uno dei momenti più eccitanti di un servizio in gran lontano dall’azione. L’esercito manteneva la promessa di tenerlo lontano dall’azione. Della tremenda battaglia di Bakhmut, Volodymyr sentì solo i racconti. Lavorava sopratutto nell’ovest del paese, dove si preparava la grande controffensiva estiva e si formavano le nuove brigate che avrebbero condotto l’assalto.

A maggio, otto mesi dopo l’arruolamento, gli diedero la prima licenza di due settimane. Tornò in un villaggio dove gli adulti maschi erano scomparsi. Sembrava che un grande setaccio fosse passato tra le case, gli orti e i campi, lasciando solo babusie, nonnine con il fazzoletto sulla testa, madri sole e adolescenti.

Provò a incontrare il cugino, ma lui non voleva uscire di casa. Gli uomini sono tutti arruolati, fuggiti o nascosti, gli disse, gli ufficiali del Te-tsè-ka caricano nei furgoni la gente che trovano per strada. Gli mandò un video girato poco lontano in cui si vedeva un gruppo di donne aggredire alcuni ufficiali del Te-tsè-ka mentre provavano a portarsi via un uomo. Disse che su internet se ne trovavano decine di simili.

A casa, Nadia a mala pena gli parlava. Dopo che a marzo il governo aveva tagliato di tre quarti lo stipendio dei soldati non impegnati in prima linea, Volodymyr aveva potuto mandare indietro appena qualche centinaio di euro. Nadia si era fatta sempre più fredda. Non solo per i soldi, pensava Volodymyr, ma perché la guerra non sembrava destinata a finire molto presto.

La licenza finì prima che iniziasse il periodo di raccolta delle barbabietole. Volodymyr tornò alla sua compagnia, che nel frattempo era stata assegnata al fronte di Zaporizhzhia. La grande controffensiva era cominciata. Cinque brigate ucraine erano concentrate intorno ad Orikhiv, cercando di spezzare la linea fortificata dei russi. Volodymyr guidava camion carichi di munizioni, cibo, medicine, pezzi di ricambio, a volte carburante. Di notte, gli davano il cambio e lui si occupava di scaricare, né lui né i suoi commilitoni si fidavano a farlo guidare con il buio.

Le settimane passavano, le brigate si consumavano negli assalti, ma il fronte non si muoveva. Lungo la strada dritta che da Zaporizhzhia porta ad Orikhiv, Volodymyr incontrava sempre più spesso le ambulanze che procedevano in direzione opposte, i soldati a cui portavano i rifornimenti erano sempre più stanchi e sempre meno numerosi. Esaurite le unità d’élite, i generali gettarono in battaglia le riserve e quando anche quelle erano stanche e decimate, passarono ai cuochi, i genieri e gli autisti. A settembre, anche all’unità di Volodymyr arrivò l’ordine di andare all’assalto.

Debito generazionale

È stato allora che l’ho incontrato per la prima volta. Era uno splendido pomeriggio d’estate, a dieci chilometri dal fronte di Orikhiv. Mi trovavo in un campo di addestramento con un sergente della 47esima brigata, un veterano dalla barba nera come pece che si era arruolato nel 2014 con i battaglioni volontari di Settore destro, una coalizione di gruppi dell’estrema destra nazionalista.

A gruppi di venti, ci passavano davanti soldati delle unità di seconda linea e mobilitati di fresco, plotoni di padri e di nonni dai capelli grigi, alcuni sorridenti e di buon umore come fossero una scampagnata, molti con i volti smarriti, impacciati nell’impugnare i loro Kalashnikov.

Mentre li guardavamo sfilare, il sergente scuoteva il capo e abbassava gli occhi sulla punta dei suoi anfibi. L’esercito ucraino non era mai stato un esercito dei giovani, ma con le perdite causate dalla controffensiva la situazione stava peggiorando di settimana in settimana. La guerra è una faccenda per giovani, diceva il sergente, i vecchi non riescono a correre.

Volodymyr camminava in uno dei gruppi di soldati-padri. Sorrideva e vedevo che, incuriosito, mi cercava con gli occhi – ero l’unico in tutto il poligono vestito da civile. Tramite un interprete parlammo per un po’ di Lyman, della sua vita, della sua famiglia.

L’ho rivisto poco tempo dopo, in un punto di stabilizzazione medica subito dietro il fronte. Era sdraiato su una brandina, una flebo attaccata al braccio. In mezzo agli altri feriti che cercavano di nascondersi dal giornalista, lui, di nuovo, mi cercava con gli occhi. Era ancora sotto shock. Aveva la voce rotta come se avesse appena corso a perdifiato, ma anche una gran voglia di parlare.

Mi disse che quel pomeriggio stava andando in prima linea quando il blindato su cui viaggiava era saltato su una mina. La ferita fortunatamente non era grave. Continuammo a parlare per un po’, ma non più di guerra. Mi disse che non vedeva Irina da quando era tornata a Kiev, un anno e mezzo fa, e mi disse di andarla a trovare. Dovevamo avere la stessa età.

Ho impiegato un po’ a contattare Irina. Dopo Zaporizhzhia ho trascorso molto tempo al nord, nella zona di Kharkiv e Kupiansk. Sono tornato in Italia per le vacanze di Natale e poi ho speso molto tempo dietro alle mie lezioni di ucraino. Nel frattempo, la controffensiva si era esaurita e quando i russi sono tornati all’attacco gli ucraini si sono trovati senza più truppe. Zelensky è stato costretto a firmare una legge per abbassare l’età di mobilitazione da 27 a 25 anni. Non è chiaro se questo contribuirà a ringiovanire le forze armate ucraine, dove l’età media ha ormai superato i 42 anni.

Irina, che, oltre a dare lezioni di ucraino, lavora part-time in una fondazione che raccoglie donazioni per le forze armate, mi ha dato appuntamento in un caffè hipster del centro di Kiev, dove un’intera parete è decorata con insegne di unità militari, regalate dai soldati in licenza, e un’altra da un quadro che mostra il Cremlino in fiamme.

Irina mi ha fatto molte domande: sull’Italia, sull’Europa, sul sostegno dell’occidente al suo paese. Mi ha chiesto perché il papa continua a parlare di pace: non sa che se i russi vinceranno faranno un genocidio? Se cade l’Ucraina, l’Europa sarà la prossima, mi ha detto.

Non ho voluto chiederle direttamente del padre, mi sembrava che lei stessa preferisse girarci attorno. Così ho parlato delle mie esperienze al fronte, di ciò che ho visto, dei tanti anziani che combattono in prima linea, del bisogno di nuovi soldati di cui parlano tutti. Lei ha annuito e mi ha dato una risposta che aveva l’aria di essere la sua parola definitiva sull’argomento: «Ci sono molti soldati anziani nell’esercito. Con affetto, gli altri li chiamano nonni, o papà. La loro generazione è quella che ci ha portati in questa situazione. Hanno accettato la corruzione, si sono fidati dei politici amici della Russia, hanno lasciato che il nostro esercito venisse distrutto e hanno dato a Putin l’impressione che eravamo deboli. Ora, è giusto che siano loro a rimediare». Non ho idea se nelle sue parole prevalesse il biasimo o la gratitudine.

Né vivo né morto

Due settimane dopo, Irina mi ha mandato un messaggio. Suo padre risulta disperso nel settore di Avdiivka. Sa che io ogni tanto vado al fronte, non potrei provare a chiedere qualche informazione la prossima volta che ritorno?

“Disperso” significa che Volodymyr per lo stato non è né vivo né morto. Non riceverà uno stipendio e la sua famiglia non avrà i centomila euro che spettano a chi perde un parente in combattimento. Senza quei soldi forse Nadia dovrà vendere il campo, sempre che si trovi qualcuno disposto a comprarlo nel villaggio senza più uomini. Forse si trasferirà dalla figlia a Kiev. O forse continuerà a vivere nel villaggio. Dai racconti, mi sono fatto l’idea che sia una tipa coriacea. Poco tempo prima, Zelensky ha ammesso che l’esercito ucraino ha perso almeno 31mila soldati e che altri 20mila sono dispersi. Significa che ci sono decine di migliaia di famiglie nella stessa situazione di Nadia e Irina.

I parenti dei soldati dispersi e di quelli prigionieri in Russia sono l’unica forza sociale che nell’Ucraina della legge marziale manifesta regolarmente. Passano sotto le finestre di casa mia ogni sabato, salendo da Maidan e diretti al monastero di San Michele. Portano bandiere e fotografie dei loro cari in uniforme. Sono manifestazioni patriottiche, ma che funzionano anche da valvola di sfogo in cui si convogliano le mille frustrazioni per un conflitto che appare senza fine. Mi chiedo se un giorno vedrò passare nel corteo anche Irina, con una foto di Volodymyr con indosso i suoi occhiali spessi e la solita divisa che sembra andargli troppo larga.

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