È il 13 giugno e Daniel Mendelsohn si trova al MAXXI di Roma per un evento nell’ambito del festival “Le Conversazioni”, a cura di Antonio Monda. Parlerà di letteratura e cinema in occasione dell’uscita della raccolta di saggi Estasi e Terrore, dai greci a Mad Men, appena pubblicata da Einaudi con traduzione di Norman Gobetti. Daniel Mendelsohn è classicista e storico collaboratore del New Yorker, traduttore, docente, critico e scrittore di fama internazionale.

Elegantissimo nell’aura come nello stile, il Mendelsohn che risponde alle domande di un’intervista si manifesta come incarnazione del Mendelsohn autore di scritti fatti di oscillazioni tra (ciò che comunemente definiamo) alto e (ciò che comunemente definiamo) basso, tra letteratura classica e cultura pop, tra raffinata analisi critica e aneddotica personale. Di domanda in domanda disinnesca il rischio di brusco scarto passando con grazia da una nuova lettura del viaggio dell’eroe virgiliano ai limiti di una serie osannata, da Saffo a I segreti di Brokeback Mountain, dalla voga del memoir al fascino irresistibile di alcune soap opera. L’autore de Gli scomparsi, Un’Odissea e Tre anelli comunica senza didascalie che nella vita, così come nell’opera, tutto sta insieme e non esistono compartimenti abbastanza stagni da poter separare le dimensioni che restituiscono il quadro di una società, di un’epoca, di una letteratura.

Nell’introduzione a Estasi e Terrore spiega le ragioni di una raccolta di saggi rivolta al mercato editoriale italiano, qual è stato il criterio di selezione di questi scritti così variegati e che coprono almeno vent’anni di attività?

Estasi e Terrore nasce dalla volontà di colmare una distanza tra una parte del mio lavoro e il pubblico italiano. Infatti, mentre negli Stati Uniti sono più conosciuto per i miei scritti sul New Yorker che per i romanzi, in Italia si verifica il fenomeno contrario. Mi piaceva l’idea di proporre alcune delle mie opere saggistiche e di critica. Poi è venuto il momento di fare una cernita tra oltre trecento scritti, a quel punto il confronto con la casa editrice è stato fondamentale per capire che cosa potesse interessare a un pubblico italiano. Ero certo che il Titanic fosse un tema importante per il mondo anglosassone, ma ignoravo avesse un reale appeal anche in Italia. Da questo punto di vista il rapporto di fiducia e il dialogo con chi è sul campo è fondamentale, un processo interessante e che muta ogni volta che ci si relaziona a un paese diverso.

Nel 2022 ha ricevuto il premio Malaparte ed è proprio il suo discorso di accettazione a chiudere Estasi e Terrore. In quelle pagine racconta anche del suo primo incontro con Le Opere di Dio, di Giuseppe Berto. Berto ha una vicenda complessa, è autore di capolavori come Il cielo è rosso e Il male oscuro, ha scritto con grande esattezza degli effetti nefasti della guerra e al tempo stesso è il soldato che ha combattuto nelle fila dell’esercito fascista fino a essere fatto prigioniero dalle forze alleate.

Le opere di Dio è stato il primissimo libro in italiano che ho letto da studente, avevo diciannove anni e non sapevo niente. Guardando indietro mi colpisce pensare a quanto fossi ignorante. A posteriori, mi colpisce che Le opere di Dio mi sia stato introdotto dalla professoressa Langbaum, nata Levi Vidal in una famiglia di ebrei bolognesi costretti a lasciare l’Italia nel 1939 per fuggire dal fascismo. Dunque il fulcro del ragionamento per me è quella che possiamo chiamare “conoscenza tardiva”. La professoressa Langbaum oggi non c’è più e, come sempre accade, restiamo con le molte domande che vorremmo fare a chi è morto. Adesso, per esempio, a lei vorrei chiedere perché ci ha proposto Berto, ma non posso farlo.

Lei è un grande classicista, crede che la letteratura antica e, in particolare, la tragedia greca, possano ancora parlarci e magari dire qualcosa della nostra società?

I greci sono i nostri antenati culturali, ma credo che chiedere ai classici greci di insegnarci come vivere la nostra vita sia un grosso errore. Di sicuro, se facciamo loro questa richiesta, riceveremo delle risposte quantomeno strane. Tuttavia è vero che la tragedia greca – guardiamo allo straordinario esempio delle Baccanti – parla di genere, di fluidità, parla moltissimo di sesso, di violenza, di paura della morte e della sua inevitabilità, parla di questioni umane con cui abbiamo e avremo sempre a che fare. Questo accade perché la tragedia greca non dà delle risposte, ma ci mette di fronte a domande già sollevate. Come quella del perché gli uomini hanno il potere.

Tra quelle che definisce “domande già sollevate” la morte è forse tra le più urgenti, un tema ignorato in questo tempo di negazione diffusa della mortalità.

Non so quale sia la situazione in Italia, ma negli Stati Uniti è piuttosto diffusa l’idea che se ti comporti bene, adotti determinate strategie per condurre una vita salubre, mangi bene, non bevi, non fumi e fai sport allora non morirai mai. E invece morirai, a un certo punto. E quello che io amo tantissimo dei greci è che hanno un approccio non sentimentale nei confronti della morte. Sanno che è là e che è ineludibile. La loro letteratura è lo specchio di una società in cui la morte, anche precoce e violenta, era onnipresente e visibile. Noi l’abbiamo sanificata e medicalizzata, la allontaniamo, moriamo negli ospedali e non vogliamo pensarci. Ho nostalgia dei vecchi tempi in cui dopo essere morti si veniva vegliati in cucina per giorni.

Nella seconda parte di Estasi e Terrore, dedicata ai Miti in technicolor, compare un saggio dedicato a I segreti di Brokeback Mountain che è completamente diverso da tutti gli altri. Non si tratta di un lavoro di critica relativa a un film, a una serie o all’opera di un regista (come nel caso dello scritto sul cinema di Almodòvar). È letteralmente quella che possiamo definire “critica della critica”. Evidenza il fatto che, all’uscita del film nelle sale, negli Stati Uniti si è creato una sorta di diniego collettivo rispetto alla tematica della storia d’amore omosessuale tra due cowboy. Qual è stata la genesi di questo saggio?

È esattamente una critica alla critica ed è nata in modo particolare. Quando mi è stato chiesto di scrivere un pezzo sul film, inizialmente, ho declinato la proposta. Ero andato a vederlo e ho pensato che era un bel film, ma sentivo che qualcosa non mi tornava, qualcosa mi disturbava e non capivo cosa. Poi mi è capitato di vederlo una seconda volta. Il film continuava a piacermi, ma restava quella strana sensazione. Infine l’ho visto una terza volta e, al ritorno a casa, ho trovato sul tavolo della cucina la copia di un giornale spalancata su un’enorme pubblicità. L’immagine ritraeva uno dei due protagonisti abbracciato alla moglie. Lo slogan diceva: la storia di cui tutta l’America si sta innamorando, mentre il sottotitolo alludeva al fatto che si trattasse di una storia d’amore osteggiato, ma di natura universale, come tutte le altre. A quel punto ho capito che quello che mi dava fastidio non aveva niente a che vedere con il film, ma con la sua ricezione, ed ero così arrabbiato che ho scritto il saggio critico in sei ore. Persino Romeo e Giulietta non si sono trovati a vivere la tragedia che hanno vissuto questi due uomini, perché non si sono dovuti nascondere.

All’epoca, in Italia, quando abbiamo avuto l’occasione di vedere I Segreti di Brokeback Mountain sui canali della televisione nazionale, la scena del bacio tra i protagonisti è stata tagliata. Censurata. È seguito un grande scandalo e una parte rilevante di opinione pubblica si è sollevata, ma quell’operazione assurda era anche il triste specchio di un sistema.

La radice di ogni omofobia è il patriarcato. Il modo in cui la virilità deve esprimersi in un sistema patriarcale, il fatto che questa virilità possa essere messa in discussione dalle relazioni tra uomini. Da questo punto di vista il principio vale anche per le donne lesbiche. In un’ottica patriarcale, il fatto che delle donne possano vivere felicemente facendo a meno degli uomini è egualmente offensivo. Il patriarcato, poi, si riflette in quello che vediamo. Così se da un lato i media ci propongono costantemente immagini di violenza, di sangue, di abuso, di incesto, di guerra, di armi, dall’altro un bacio tra due uomini va nascosto come se fosse una visione insostenibile.

Esiste qualche opera contemporanea che l’ha fatta pensare alla tragedia greca?

Il lavoro più recente che mi ha fatto pensare anche per struttura alla tragedia greca probabilmente è Breaking Bad. È uno dei pochi casi che mi vengono in mente. Ci sono molte opere che vengono presentate e sponsorizzate come affini alla tragedia greca, ma spesso e volentieri sono invece più simili a delle soap opera.

“Simile a una soap opera” è qualcosa che scrive anche in riferimento a una serie culto come Mad Men…

Sì, e non vorrei si pensasse che ho qualcosa contro le soap opera, quando per un periodo ho vissuto a Venezia guardavo sempre Un posto al sole...

Deve sapere che sono una grandissima fan di Un posto al sole, posso chiederle che cosa le piace esattamente di questa soap-opera italiana?

Cosa potrebbe non piacermi di Un posto al sole? È perfetto. Lo guardavo quando andavo in palestra. Ricordo ancora alcune battute, come la volta in cui un personaggio femminile rivolgendosi con grande intensità a un’altra donna ha detto (cita la battuta in italiano con un certo pathos, nda): “Tu devi assolutamente lasciare quell’uomo!”

Un tema che affronta nella terza e ultima sezione, Miti di oggi, è quello della moda del memoir. Il memoir oggi è un genere estremamente popolare anche in Italia, crede che si tratti di una forma di catarsi esternalizzata? Abbiamo bisogno di immaginare di ritrovare noi stessi attraverso una vicenda altrui?

È senz’altro presente l’idea di immedesimarsi nell’esempio di qualcuno che si è perso e ritrovato, ma quello che mi interesserebbe di più è capire per quale ragione l’esplosione del memoir si sia verificata a partire dagli anni Ottanta. Ragionandoci mi sono dato una risposta, ma si tratta di una risposta folle e, nel caso in cui la riportasse nell’intervista, desidero venga specificato che sono consapevole della sua follia. Credo che la ragione sia stata la fine della Guerra Fredda. La Guerra Fredda ha segnato la fine di tutte le grandi narrazioni che hanno accompagnato la letteratura fino a quel momento. Prima abbiamo avuto la fine del secolo precedente e la Prima Guerra Mondiale, poi la Seconda Guerra Mondiale e lo scontro tra fascismo e democrazia, in seguito la Guerra Fredda. Alla fine di tutto questo le grandi narrazioni si sono disgregate lasciando che le storie dei singoli crescessero come piccole piante.

Ho anche una teoria meno folle ed è quella della secolarizzazione della società. Com’è noto ci stiamo progressivamente secolarizzando e allontanando dall’idea di una presenza di dio. Dunque cerchiamo altre vie di salvezza perché, anche se non c’è dio a farlo, alla fine vogliamo comunque che qualcuno ci salvi.

Ne Gli Scomparsi lei ha scritto di come l’Olocausto ha colpito anche la sua famiglia. La letteratura può salvarci da quella che lei definisce “immunizzazione all’orrore”?

Non so se la letteratura possa salvarci dalla Storia, ma può darci degli strumenti per capirla, che è già qualcosa. Può darci degli strumenti per riflettere e, nel caso dell’Olocausto, per capire. Non può salvarci dal terrore, anzi, la letteratura non deve salvarci dal terrore. Deve rappresentare anche le cose più spaventose. Prima ho fatto un’intervista radiofonica durante la qualche mi hanno chiesto un parere sulle università statunitensi che censurano alcuni libri perché potrebbero turbare gli studenti. Credo che questa sia un’idea terribile, il ruolo della letteratura è quello di narrare anche l’orrore, è quello di farci pensare a cosa è accaduto.

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