A tutti piace dare del profeta a Michel Houellebecq, anche quando non ci prende. È un vizio recente, quello di attribuire ai grandi scrittori doti profetiche: come se la più alta forma di conoscenza che la letteratura possa esprimere fosse l’anticipazione degli eventi, e non piuttosto la loro comprensione. Si continua a dire del Grande Scrittore che lui “l’aveva detto prima” o, se è vivo, a chiedergli un pronostico, la versione colta dei numeri del superenalotto.

È successo a Pasolini; accade ora a Houellebecq, a cui tanti corrono a citofonare il giorno prima di qualsiasi elezione, convinti di poter cogliere dalle sue labbra di aruspice il soffio di qualche oscura profezia da virgolettare. Profezie, ovviamente, sempre disastrose – e non potrebbe essere altrimenti. Come fa dire Sofocle a uno dei suoi personaggi: è facile fare il profeta annunciando disgrazie, quelle arrivano sempre, non serve essere delle pizie.

Lo scrittore non è profeta di niente: ogni scrittore parla sempre e solo del presente. Di qualsiasi cosa egli si occupi, sta sempre descrivendo un qui e ora. Se c’è una trasformazione in atto, qualcosa d’imminente, non ci viene raccontata perché sta arrivando, ma perché è già qui.

Chi lavora nell’ambiente lo sa: Michel Houellebecq molto raramente rilascia interviste. Ancor più raramente tiene incontri pubblici. Dicono che è perché sia scontroso fino alla misantropia. Non è vero. La verità – l’ha confessato lui stesso in quel fulgido esempio di letteratura comica che è Qualche mese della mia vita – è che Houellebecq non riesce a elaborare pensieri complessi nel tempo che separa la domanda dalla risposta; ha bisogno di tempo per riflettere e organizzare il pensiero. Se risponde reattivamente quello che viene fuori è disorganizzato, istintivo, poco chiaro, e scoppiano casini.

La fitta muraglia di funzionari editoriali e addetti stampa impegnati a tenere ben lontani i microfoni dei giornalisti dalla bocca di Houellebecq non sono lì per un divistico desiderio dello scrittore di non essere importunato, ma per evitargli di lasciarsi scappare qualche risposta di cui potrebbe essere seccante gestire le conseguenze.

Il concetto di popolo 

Tuttavia, nonostante il cordone di sicurezza, un giornalista del Paìs, Marc Bassets, è riuscito a raggiungerlo al telefono sperando di ottenere qualche frammento oracolare con cui fare il titolo. Ci è riuscito. Quando Bassets gli ha chiesto cosa pensasse di Marine Le Pen, Houellebecq ha risposto: «Non credo sia molto intelligente o competente, ma non è grave, si trovano sempre persone intelligenti e competenti. Piuttosto penso che ami davvero il popolo, che sia vicina al popolo».

Ma come, chiede Bassets, anche se è una borghese di Parigi figlia di un uomo ricco? Houellebecq, preso evidentemente da un lampo d’ironia o di languore postprandiale (l’orario in cui si svolge la telefonata non è riportato, ma chi legge i suoi romanzi sa che lo scrittore mangia pesante proprio per appannare i pensieri oscuri): «Credo che abbia avuto una rivelazione quando è stata eletta a Hénin-Beaumont e lì ha simpatizzato con i poveri».

Mi ritrovo a invidiare i francesi, che possono usare pubblicamente la parola “popolo” senza alcuna ironia, mentre qui da noi non abbiamo una sola parola utile per parlare delle classi subalterne senza usare perifrasi. Non c’è da stupirsi: l’evento centrale della storia francese è la Rivoluzione, il nostro è la Controriforma, non possiamo intenderci.

Popolo è una parola bellissima, i loro partiti la usano sia a sinistra che a destra, se la contendono col sangue. È una parola che ha dentro già uno slogan: popolo è la massa che insorge, popolo è una forza in movimento, popolo è comunità, tutto il contrario dell’individualismo capitalista. È questo, io credo, al netto delle analisi politiche, il vero tema di queste elezioni: la lotta dei partiti intorno al concetto di Popolo.

Vuoto di linguaggio

Il successo, ancorché arginato, di LePen e Bardella fa tutt’uno con quello di Mélenchon nel segnalare la più urgente e sottovalutata delle questioni: esiste una categoria sempre più vasta di persone a cui viene, da anni e sistematicamente, negata una piena legittimazione politica.

Queste persone non sono fascisti locali pronti a unirsi in squadracce né barbari immigrati da oltre la Barriera: sono le unanimi vittime di uno scontro di classe, a cui la politica non riesce più a trovare un posto nel Discorso. Il voto è diventato il loro unico modo di emergere al linguaggio, dal quale vengono esclusi persino terminologicamente.

Scrive Houellebecq: «La parola di “sotto-cittadini” usata da Jordan Bardella è esagerata; sarebbe più opportuno ricorrere a una vecchia definizione, i pezzenti. È così che le élite considerano il popolo, in particolare quello rurale: come dei pezzenti. Con qualche variante interessante. Gli “sdentati” (François Hollande), i “miserabili” (Hillary Clinton). Insomma, il voto è, più che mai, un voto di classe».

Per vent’anni Michel Houellebecq è stato il profeta di un huntingtoniano scontro fra civiltà, il plumbeo cantore di un conflitto epocale. Da Estensione del dominio della lotta fino a Sottomissione, Houellebecq ha sempre immaginato il prossimo futuro come il teatro di uno scontro tra islam e capitalismo. Oggi Houellebecq si ricrede e dice: gli attori dello scontro non sono più islamici e capitalisti, e forse non lo sono mai stati: i poli dello scontro sono ricchi e poveri, popolo contro élite. Lo scontro non è religioso: è di classe.

Credo che Houellebecq abbia ragione, e che sia diventato non solo sbagliato, ma anche pericoloso continuare a far finta che il punto non sia questo. Alle spalle della vittoria delle destre non c’è una deriva ideologica ma un disagio di classe, che – come tutti i disagi – inizia nella lingua. E che – come tutti i vuoti del linguaggio – se non viene sanato diventa violenza.

Una battaglia linguistica

Chi voglia capire chi sono davvero questi pericolosi elettori del Rassemblement National dovrebbe andare a leggere uno dei più bei libri usciti nell’ultimo anno, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo di Didier Eribon (L’Orma).

L’autore, cresciuto in una famiglia operaia alla periferia di Reims e poi trasferitosi a Parigi e divenuto filosofo alla moda, torna al suo paese per assistere la madre morente. Al capezzale di lei, Eribon si chiede come abbia potuto una donna che fino agli anni Ottanta è stata una lavoratrice e militante comunista finire, nei suoi ultimi anni, col votare il Front National. La risposta è, ancora una volta, linguistica: il partito di Marine Le Pen, invotabile per un operaio ai tempi del partito comunista, ha finito col diventare l’unico soggetto politico da cui quegli operai non si siano sentiti traditi e abbandonati.

Scrive Eribon: «La politica è un’attività di produzione performativa del reale: vediamo classi sociali perché Marx ha detto che esistono classi sociali, una classe operaia non solo nel senso di una classe concreta, nella realtà oggettiva del lavoro, ma nel senso di una categoria istituita e di un gruppo politicamente mobilitato. Se la classe operaia esisteva nel discorso e nella realtà, è perché c’era un partito comunista che si presentava come il partito di quella classe e che parlava per quella classe e in suo nome».

Le elezioni francesi dimostrano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che le usuali e plastificate soluzioni del linguaggio liberal non funzionano più: in un mondo di progressiva povertà e demolizione dello stato sociale, il concetto di Popolo torna a una disperata ma straordinaria attualità. È una battaglia linguistica prima ancora che politica.

Come scrive ancora Eribon: «È la questione politica fondamentale: chi parla? Chi può prendere la parola? E se questo gesto politico elementare rimane inaccessibile a così tante persone tra le più dominate, le più deprivate, le più vulnerabili, non è forse compito di scrittrici e scrittori, artiste, artisti e intellettuali parlare di loro e per loro, di renderle visibili e far ascoltare la loro voce, o forse anche per dare loro una voce?».

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