Quante vite, quanti volti, quante sfumature. Quante Raffaella Carrà sono esistite, non per opportunismo di maniera, quanto piuttosto per una capacità unica e innata di moltiplicare interpretazioni, condensare personalità, definire modi di intendere la televisione e cavalcare il successo.

All’esuberanza trascinante e contagiosa della donna di spettacolo ha sempre fatto da contraltare l’immagine di una ragazza costretta a crescere in fretta, abbandonata dal padre e con il rimpianto di non essere mai diventata madre.

Raffa, la docu-serie del regista Daniele Luchetti disponibile su Disney+ è un viaggio in tre episodi nell’ascesa pubblica e nei tormenti privati di una delle più grandi interpreti del piccolo schermo. A un anno e mezzo dalla morte, la figura di Raffaella Carrà si erge nello spazio della rappresentazione come autentica espressione di una certa cultura (popolare e avanguardista allo stesso tempo), consacrata a un ruolo di regina e guida di battaglie, rivendicazioni, timidi ma costanti allentamenti della morale.

Attraverso testimonianze inedite, filmati d’epoca e tentativi di contaminare il montaggio serrato del documentario con inserti di fiction, il lavoro di Luchetti restituisce un ritratto vivido della giovane Raffaella Pelloni divenuta show-woman di caratura internazionale. La sua vita, la sua professione, la sua stessa idea di libertà sono una continua altalena di emozioni; il documentario sembra voler giocare di sponda, utilizzando i momenti topici della sua carriera per scandire quelli intimi e privati, e viceversa.

Su tutto emerge la continua ricerca di una figura maschile, compensazione di quell’allontanamento doloroso dell’infanzia. Gianni Boncompagni, prima e Sergio Iapino poi, come persone capaci di esaltarne le doti, di estrarne il talento più puro, di comprenderne lo spirito.

Dalla gelateria di Bellaria a “Carràmba che sorpresa!”, la carriera di Raffaella Carrà ha attraversato le tappe del mezzo televisivo e le sue trasformazioni. Il tuca-tuca e l’ombelico scoperto di “Canzonissima” come inno di liberazione generazionale, momento di rottura simbolico della tv pedagogica delle origini; “Milleluci” come compendio del varietà di Antonello Falqui, l’ultimo con Mina sullo schermo e quello della consacrazione definitiva della diva bolognese-romagnola; “Pronto, Raffaella?” come approdo feriale, compagna nella quotidianità di uno slot di palinsesto (quello del pranzo) non ancora sdoganato dal servizio pubblico; e poi i grandi successi all’estero, in Spagna e negli Stati Uniti. Proprio in “Pronto, Raffaella?” (è l’intuizione di Boncompagni a trasformarla in confidente affabile e cordiale dei potenti e degli ultimi), la Carrà mostra un nuovo lato, quello di una tv che, pur nella semplicità, ambisce ad ascoltare i problemi degli italiani, ad amplificarli, a risolverli.

Fino a uno dei momenti più difficili ma emblematici della sua presenza sullo schermo e della sua affidabilità per il pubblico, ovvero quando aprì una puntata di “Domenica In” polemizzando e redarguendo i giornali che avevano scavato nel suo rapporto con la madre Iris, accusando la conduttrice di non averle prestato cure e attenzioni necessarie.

La Carrà, emozionata ma decisa, non le mandò a dire, si tolse un peso prima di iniziare lo spettacolo della domenica pomeriggio cambiando registro con la consueta professionalità.

Tra le testimonianze, oltre a quelle di parenti e lontani amici (come l’anziana Anna Vasini che ci regala un ricordo e un affresco inediti), troviamo Barbara Boncompagni, Tiziano Ferro, Fiorello, il suo storico autore Salvo Guercio.

“Raffa” descrive una personalità che si colloca tra i divi della cultura nazional-popolare; il suo nome e il suo caschetto riecheggiano nelle battaglie per i diritti di questi tempi, ma non va dimenticato che la Carrà è stata soprattutto una grande professionista della tv, rigorosa e disciplinata, poliedrica e spontanea, curiosa e combattiva.

© Riproduzione riservata