L'uomo senza qualità, Alla ricerca del tempo perduto, o Ulisse? Se scorro le note sul mio telefono un binomio si ripete con, grazie al cielo, una discreta regolarità: il primo elemento è sempre fisso e recita “libri per”, il secondo invece varia a seconda delle destinazioni dei miei viaggi o delle stagioni. Trovo così titoli emblematici come “libri per New York” (realisticamente da leggere solo in aereo, ma c'è il romanzo più lungo di Dickens, Schiavo d'amore di Maugham e I tre moschettieri di Dumas), “libri per le vacanze di Natale” (equiparabili alle abbuffate natalizie come Astrologica di Aby Warburg o Eros e magia nel Rinascimento dello storico delle religioni Ioan Petru Culianu), “libri per isola d'Elba” (al mare ci si rilassa e quindi soprattutto lunghi romanzi) o “libri per viaggio in Francia” (ovviamente caratteristici come i Diari di Gide e un paio di volumi della Commedia umana di Balzac). Riaprendo in questi giorni i vecchi elenchi, mentre mi accingevo a compilare l'ennesima nuova lista per le vacanze estive, tre cose mi sono saltate all'occhio: il fatto, simbolico segno di un'indecisione che va di pari passo con un desiderio totalizzante, che i libri sono sempre diversi, la mole mai trascurabile di ognuno di questi e, infine, l'ordinata ricorrenza delle liste per l'estate. Ognuno di questi aspetti spalanca questioni dirimenti (dal ripercorrere la proprio biografia attraverso le scelte letterarie al desiderio di leggere ogni cosa, dalla necessità impellente di ritagliarsi un tempo per la lettura che la quotidianità non concede alla presenza di autori che abitano sempre pensieri e manie), ma poiché mi trovo a riflettere sull'ennesima nuova lista, già compilata nella mia mente, credo che alcune considerazioni spieghino bene questi desideri smisurati.

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Sono convinto che il processo di lettura sia animato nel profondo da un desiderio quasi mistico di unione con il libro che si legge. Alexandre Kojève, filosofo di origine russa, nipote di Kandinskij e insuperato interprete dell'opera di Hegel (ne sono testimonianza i suoi corsi, frequentati assiduamente da un parterre de rois che contava Jacques Lacan, Raymond Queneau, Georges Bataille e André Breton), ha scritto che “il desiderio umano deve avere come oggetto un altro Desiderio” e che “è umano desiderare ciò che gli altri desiderano, perché lo desiderano”. Se si inserisce questa riflessione dentro il processo di lettura e interpretazione di un testo che avviene ogni volta che teniamo un libro tra le mani, diventa chiaro che ogni libro rappresenta un ampliamento dei confini del nostro rapporto con il mondo: si desidera ciò che desiderano i protagonisti (Emma Bovary docet), si sogna di agire come i personaggi di queste storie e la realtà moltiplica le sue possibilità grazie alle invenzioni degli autori. In poche parole la letteratura funziona come perpetuo moltiplicatore di realtà, come arricchimento continuo, come possibilità di vivere infinite vite. In questo senso allora tutte queste liste sono la testimonianza concreta di questa bramosia di infinito perché se “siamo a un passo dalla morte / ma non sappiamo ancora da quale luogo” (così recitano i versi spaventosamente precisi di un grande poeta come Roberto Carifi), sono i possibili mondi offerti dalla letteratura e la dipendenza dalla saggezza di questi maestri a farmi riempire gli elenchi sul telefono (“la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dell'autore, e vorremmo che ci desse risposte, mentre può darci solo desideri” ha annotato Proust, uno che di possibilità con la sua Recherche ce ne ha regalate parecchie).

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Ma al di là del problema astratto, tutto questo discorso si trascina dietro questioni ben più concrete e, letteralmente, “faticose”. Digitare infatti il titolo di un libro dentro questa biblioteca in potenza significa, senza ripensamenti né sensi di colpa, comprarlo e inserirlo in librerie che mi hanno fatto sentire tutto il loro peso nel trasloco di qualche anno fa. Non sono certo l'unico a possedere una biblioteca particolarmente corposa, ma sta di fatto che da circa due anni la maggior parte dei libri che possiedo (quelli più cari e preziosi a parte) è ancora all'interno di scatoloni dalle più varie forme e inizio anche a chiedermi se usciranno mai da là dentro. Se tutte le biblioteche sono infelici, ma ogni biblioteca è infelice a modo suo, la mia in questo momento soffre gli spazi angusti di queste scatole mentre gli scaffali sono rimpinguati da nuovi volumi che ne prendono potenzialmente il posto. Ogni tanto penso alla condizione di un personaggio romanzesco straordinario, il protagonista di Auto da fé di Elias Canetti, Peter Kien, che vive sommerso dai libri, che impila fino al soffitto in una casa dove mura anche le finestre (“Avrebbe comprato – scrive Canetti – dai vicini l’appartamento attiguo e avrebbe abbattuto la parete divisoria. Anche là avrebbe fatto murare le finestre e aprire dei lucernari nel soffitto. In otto locali vi sarebbe stato posto per più di sessantamila volumi”). Immediatamente però me lo dimentico perché com'è facile immaginare, la vicenda si svolge all'ombra del nazismo e il titolo che rimanda alle pratiche incendiarie dell'Inquisizione lascia pochi dubbi, la storia ha un finale tragico che porta alla distruzione dei libri e del loro padrone. Leggere è quindi un vizio, e lo è anche quello di scrivere liste per poi comprare libri, un vizio, come ha scritto Virginia Woolf, “che ci dà l'illusione di condurci alla virtù” e che porta quindi allo strano paradosso, perfettamente riassunto da Guido Vitiello nella sua indagine psicopatologica Il lettore sul lettino, che “più siamo viziosi, più ce ne vantiamo”. Nulla conta davanti a questa fonte che non può che renderci migliori, né l'esborso economico, né l'evidente mancanza di spazio, né il problema, perché di questo si tratta, di chi leggerà questi libri, di chi troverà il tempo per farlo (“Ampliare la biblioteca – pensa sempre il protagonista di Auto da fé – portandola da quattro a otto vani. Non è una cattiva idea. Bisogna progredire. Non ci si deve fermare. A quarant’anni un uomo ha tutta la vita davanti a sé, come ci si può mettere a riposo a quarant’anni?”).

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Quando mi sono trovato a compilare la lista di libri da leggere quest'estate e a confrontarla con quelle delle estati passate, mi ha appunto impressionato la mole di questi libri, come se il massimo nella soddisfazione di questa bramosia non potesse che essere legato indissolubilmente all'estensione dei volumi. Si tratta di missioni destinate a fallire, in cui il grado di riuscita è molto risicato, eppure le liste sono piene in maniera commovente: l'anno scorso, in due settimane al mare, avrei dovuto leggere Dio di illusioni di Donna Tartt (622 pagine secondo il conteggio di Amazon), la nuova traduzione a opera di Tommaso Pincio di Un amore senza fine di Scott Spencer (sempre intorno alle seicento pagine), Le benevole di Jonathan Littel (circa mille pagine), un'appassionante, e altrettanto corpulenta, biografia di Giovanna d'Arco di Colette Beaune, 4321 di Paul Auster e La traversata notturna di Andrea Canobbio. La lista non è finita, ci sono ancora altri titoli che non serve neanche aggiungere considerato già il numero implausibile per un paio di settimane, ma mi interessa dire però che gli altri libri rientrano nell'alveo dei cosiddetti “classici” (qualche romanzo francesi dell'Ottocento, un paio di Dickens, un libro di Kipling e l'ennesima diversa traduzione di L'isola del tesoro di Stevenson). I classici sono libri della cui lettura, come capita a tanti, mi sono rimasti ricordi indelebili che si legano, tout se tient, alle estati di un bel po' di anni fa quando, per usare le parole chirurgiche di Giorgio Colli, il libro “cessa di rappresentare la costrizione dello studio, e diventa un oggetto attraente, un rifugio e un punto d’appoggio, una fonte di vita”. Ricordo un caldo che faceva ritardare l'uscita pomeridiana in attesa di un'aria un po' più fresca, la camera con le tapparelle non del tutto in grado di respingere i raggi del sole, una penombra naturale in cui pescavo dalla biblioteca di casa inserendomi, con noncuranza, dentro storie che mai avrei dimenticato. Ricordo il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, qualcuno ha scritto che si tratta di un romanzo perfetto ma scritto male, io ho ancora in testa le tante maschere dell'indimenticabile protagonista, Il rosso e il nero di Stendhal in una vecchissima edizione Sansoni che perdeva le pagine o il colpo di scena finale di Grandi speranze di Charles Dickens in un universo abitato da personaggi memorabili come Pip, Miss Havisham o lo spaventoso Magwitch. Pensando a questo i classici nella mia lista assumono un altro significato perché da un lato rimandano con nostalgia al tempo passato in cui si è formata la mia mente di lettore, dall'altro, in maniera meno poetica e ben più problematica, sono la testimonianza concreta del tempo perduto che accomuna le esistenze di questo periodo storico, il sogno che le vacanze costituiscano un tempo senza durata, una finestra temporale infinita in cui poter far tutto, un luogo dello spirito lontano dalle costrizioni quotidiane che non lasciano spesso neanche il tempo di leggere per diletto poche pagine. Questo sogno si compie in compagnia di uomini e donne scomparsi da tempo e adesso trasformati in libri in cui, e sono sempre parole di Giorgio Colli per il progetto dell'Enciclopedia di autori classici, “l’animo fresco, che cerca la vita immediata, ed istintivamente vede nel libro il passato che è morto, d’improvviso scopre nello scritto una vita nuova, non legata al suo presente, ma forse più intensa”. Perché quindi la razionalità dovrebbe interrompere questo flusso felice del pensiero riportando con i piedi per terra? Perché dovremmo smettere di scrivere le nostre liste e di pensare che più un libro è lungo e più ci darà soddisfazione leggerlo? Non mi pare esistano particolari motivi per farlo e allora continuiamo a riempire i nostri zaini e le nostre valigie di parallelepipedi di carta che sono l'essenza della vacanza e del tempo libero nonché il simbolo di una lotta persa, ma non avvertita come tale, basta non pensarci troppo, per la riappropriazione di un tempo che non esiste più.

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Succede poi che libri per cui si brama la tranquillità delle vacanze per un'immersione totale, vengano soppiantati da nuove uscite: non è frequente, ma quest'anno due libri hanno raggiunto la testa del mio programma, volubile come ogni classifica che si basi esclusivamente sull'ondeggiare dei desideri, neanche a dirlo due libri di un certo peso. Il primo è la nuova pubblicazione di un romanzo la cui fama leggendaria, alimentata da scrittori come Jonathan Franzen o David Foster Wallace (anche il suo Infinite Jest ha viaggiato molto con me), va di pari passo con la sua natura complessa, ovvero Le perizie di William Gaddis, libro risalente al 1955 e ripubblicato dal Saggiatore con la storica traduzione di Vincenzo Mantovani dopo anni di tragica assenza dalla librerie (meno tragica per chi possedeva, e vendeva, la prima edizione Mondadori). La vicenda è, all'apparenza semplice: un pittore, Wyatt Gwyon, si fa convincere da un sinistro mercante d'arte a produrre falsi di quadri fiamminghi mettendo la sua abilità, fallita la carriera di pittore “originale”, al servizio del semplice guadagno. Ma Le perizie è uno dei capostipiti del romanzo postmoderno, un libro che anticipa le acrobazie letterarie tra realtà e finzione, tra letteratura e vita, che negli Stati Uniti troverà interpreti eccezionali come Thomas Pynchon (non a caso c'era il sospetto che Gaddis e Pynchon fossero la stessa persona) e Don DeLillo. Se infatti nelle prime pagine il romanzo sembra procedere in maniera abbastanza canonica, improvvisamente la storia si frantuma e diventa molto difficile seguire il protagonista Wyatt Gwyon tra mille personaggi che sbucano fuori da un enigmatico Greenwich Village, dialoghi in cui non sempre è chiaro chi stia prendendo la parola e lunghe riflessioni filosofiche mescolate a situazioni paradossali che rimandano alle pagine più divertenti delle commedie dell'equivoco di stampo goldoniano. Già queste poche indicazioni rendono evidente come Le perizie costituisca un vero e proprio Graal delle letture estive, per il tempo che necessita per essere letto, per l'impresa di portarlo a termine e per la sua natura inattuale in un panorama contemporaneo dove velocità e pressapochismi regnano sovrani. E a una simile impronta inattuale, “ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo” secondo le parole di Nietzsche, certamente più mitigata nella forma seppure altrettanto tagliente nel contenuto, appartiene l'altro libro che viaggerà con me, il romanzo-biografia su Thomas Mann di Colm Tóibín, uno scrittore in grado di muoversi con una naturalezza impressionante tra fatti storici e percorsi di finzione che da questi nascono, Il mago (Einaudi, tradotto da Giovanna Granato). Quando si parla di un libro come agente moltiplicatore della realtà e della nostra visione del mondo, Il mago di Tóibín occupa un posto di prim'ordine, da un lato perché si basa sulla biografia e, soprattutto, sulle opere di Mann, immaginando come possa essere l'opera a plasmare la vita, dall'altra perché permette di dare nuovi volti e interpretazioni alle straordinarie storie dello scrittore tedesco, vedendo con nuovi occhi Tadzio e Gustav sul lido di Venezia, l'ingegnere Hans Castorp in sanatorio nella Montagna magica o l'agiata famiglia Buddenbrok dell'omonimo romanzo. Il mago è uno splendido gioco illusionistico dove le fonti si mimetizzano fino a scomparire e, ancora una volta, a esplodere è il piacere di un racconto da cui, pian piano, emerge il fantasma di Mann, inafferrabile come lo è, in fondo, tutta la letteratura.

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C'è una domanda, che assomiglia al perturbante e proverbiale convitato di pietra, che ogni tanto fa capolino: alla fine questi libri in estate li leggiamo davvero? Qualche anno fa partii con due bagagli, quello più pesante colmo di libri, per un lungo periodo al mare: dopo i primi giorni, complice una calura davvero insostenibile, mi stancai presto di tutto ciò che era in quella borsa e afferrai il kindle portato per scrupolo e segno tangibile della mia ossessione. Iniziai allora, e non mi fermai per tutti quei giorni, a leggere le indagini del commissario Maigret, provando un piacere e un godimento straordinari, perso tra i delitti, la bontà atavica di Maigret e le leccornie che la moglie gli prepara e immerso tra le pieghe di una Parigi mai così vivida. Ma soprattutto trovai la definizione più bella possibile di quei giorni, e di ogni estate a venire, scritta in una lettera che Maigret spedisce da Cannes alla moglie lontana e che può funzionare per sviare alla scomoda domanda: “«Cielo azzurro, sole, ho fatto la siesta. La vita è bella!»”.

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