Quando entra nella stanza, pelliccia sintetica, gambe nude e stivali lucidi verdi, sento che Levante, al secolo Claudia Lagona, è ancora la ragazza che avevo conosciuto qualche anno fa, quando ci incontravamo agli eventi e tornavamo a casa tardi.

«L’ultima volta che ci siamo viste eravamo alla Mostra del cinema di Venezia, nel 2021», dice lei. Cita date e ricorda tutto, dalla nostra prima intervista insieme, al giorno che ci siamo incontrate per caso nel bar del nostro quartiere, a Milano.

Quella sera ho provato a fingere di non vederla perché l’istinto mi diceva che sarebbe stato meglio così. «Ero con Pietro», ridacchia. Io avevo già capito che lui, l’amico bello come il sole, aveva il potenziale per diventare qualcosa di più di un compagno di bevute.

E così è stato, visto che oggi è il padre di sua figlia Alma Futura, un anno compiuto da poco. «Subito dopo è scoppiata la guerra in Ucraina, è passato già un anno ti rendi conto?», aggiunge mentre osserviamo fuori dalla vetrata, che guarda sulla piazza del Duomo di Milano, manifestanti ucraini che chiedono di fermare il conflitto.

Fuori da questa porta ci sono centinaia di fan che l’aspettano, oggi è il suo primo “firmacopie” dopo tre anni. In sottofondo si sente la canzone Vivo, e poi Mi manchi, dell’album appena uscito Opera Futura. Entrambe erano state proposte al Festival, poi Amadeus ha scelto Vivo.

«Forse Mi manchi mi avrebbe reso la mia competizione più facile», sussurra. È una ballata d’amore. «Ma non guardiamo indietro, quel che è stato è stato». E cambia argomento: «Se avessi una casa con questa luce, in questa stanza ci metterei la cucina», aggiunge.

È sempre stata brava a cucinare, Claudia. La sua torta di mele è proverbiale a sentire chi l’ha assaggiata. Anche a me più volte ha promesso di prepararne una.

Mentre l’ascolto parlare, con la sua voce roca e lo sguardo sinceramente attento, mi sento in colpa. Ho creduto che quella ragazza, con cui sentivo complicità, non ci fosse più. Che avesse altre cose per la testa, mentre cantava in Mater, “Così vicina a Dio, ci pensi? Non eri stata mai”. Ma sbagliavo.

È diventata madre ma è ancora qui, dice cose buffe, ridiamo di cose passate, è sulla mia traiettoria e io sono sulla sua. Ha aggiunto, non ha tolto. Prima c’era solo la musica, ora anche una figlia a cui ha regalato un piccolo pianoforte da un’ottava.

«Pietro dice che Alma continua a cercare la mia attenzione, perché qualche volta sono distratta. A casa, davanti a lei, ci chiamiamo reciprocamente “mamma” e “papà” perché lei chiama tutti mamma. Eh no, la mamma sono io». Ridiamo.

«Certe volte chiama mamma anche il cellulare. Chissà come mai?». Ridiamo ancora.

Non è mai stata leggera Levante, neppure quando poteva permetterselo. «I figli non ti chiedono di venire al mondo, sono indifesi e devi averne cura». Le chiedo se ha sensi di colpa quando parte.«No, voglio continuare a fare questo mestiere. Solo così posso amare davvero mia figlia».

Capisco che è sempre lei. Sinceramente lei. C’è la Levante nuova che canta in Alma Futura: «Ho dato un nome al mio coraggio pieno di paure», ma c’è anche quella di Alfonso, «Corre l’anno 2013, in mano alcolici e niente più», la canzone che l’ha resa famosa nel 2014.

E anche quella che cantava, nel 2017, il ritornello «Tu sei un pezzo di me…» con Max Gazzè. Solo che a Sanremo non è stata capita. «Ma non è più tempo di rimuginare», ripete.

Guarda avanti, e fa bene. Ha firmato tutte le musiche del film Romantiche, diretto e interpretato da Pilar Fogliati e scritto da Giovanni Veronesi. Alcune melodie le ha portate anche nel disco.

«Amo Pilar, è la nostra Verdone. Nel film è riuscita a interpretare quattro donne diverse, facendo ridere ma dando a tutte profondità». Mentre parla noto che indossa la gonna che ha nel film e interpreta sé stessa.

Fa un cameo in cui si trova per caso a una festa, e viene intercettata da un’invitata che vuole fare la cantante. Le due finiscono a conversare in bagno, con la ragazza, quasi in lacrime, che chiede a Levante come abbia fatto a realizzare i propri sogni.

Quindi, come si fa?

Una volta dicevo, se vuoi puoi. Col tempo ho capito che non basta volere. La vita è fatta di variabili, fortune e sfortune. Puoi avere talento, ma poi ci sono incastri che non avvengono. Che peso deve essere pensare: «Ho dato tutto, ma non è stato abbastanza». Io c’ho messo tanto ad arrivare. La prima volta che sono salita sul palco avevo 13 anni, con una canzone scritta e composta da me. Ma sono passati altri 13 anni prima di provarci davvero”.

Come sei arrivata a questo film?

Ho conosciuto Giovanni Veronesi in radio, anni fa. M’invitò nel suo programma Non è un paese per vecchi e mentre parlavamo mi fa: “Ho visto che nel tuo disco Abbi cura di te c’è un brano che s’intitola Caruso Pascoski. Perché?”. E io: “Caruso Paskoski di padre polacco, è uno dei miei film preferiti. Lo guardavo sempre con mio padre anche se ero molto piccola. Ero innamorata di Francesco Nuti alla follia”. In quel momento a Veronesi s’illuminarono gli occhi: “Nuti è come mio fratello e la sceneggiatura di quel film l’ho scritta io”. Al che mi è caduto il cuore a terra.

E poi?

Dopo un po’ mi fa. “Come mai ti chiami Levante?” E io: “Per uno scherzo che poi è diventata una cosa seria. Era un’estate torrida siciliana, e nella noia più totale un’amica decide di chiamarmi Levante come Leonardo Pieraccioni nel film Il ciclone. Io ero Levante e lei Selvaggia”. E lui: “Bello, anche di questo film ho scritto la sceneggiatura”. Così eccoci qui. Quando mi ha proposto di fare le musiche del film ho fatto i salti di gioia.

In Romantiche dai coraggio a chi vuole fare l’artista. A te chi l’ha dato?

Carmen Consoli. Era la catanese che ce l’aveva fatta. Noi in Sicilia eravamo isolani e isolati. 

Che diresti alla ragazza che eri 10 anni fa?

Resisti e lotta. Un po’ ti perderai via ma farai le scelte giuste e non ti monterai la testa. Ero ingenua e questo mi salvava da tante cose. Scrivevo musica con spensieratezza e distacco dal giudizio degli altri. Col tempo ho scoperto tante verità che non sapevo e con questo disco mi sono ripresa qualcosa di più autentico.

Hai avuto delusioni?

Sì. Ho sempre cercato la famiglia negli altri e ho sbagliato. Ho creduto che il mondo fosse a mia immagine e somiglianza, ma non è così. Ad esempio, io non provo invidia e non la so riconoscere negli altri. E quando mi sono illusa di aver trovato la famiglia in certe persone, non era vero. Le persone stanno lavorando, da te vogliono delle cose. Se non gliele dai ti girano le spalle.

Come l’hai capito?

Se tu mi dici “Sei come una figlia”, e poi sparisci, allora non ero una figlia. Ho cercato l’amore dove non poteva crescere neanche un fiore.

Altri ti hanno amato davvero. Tiziano Ferro ti ha voluto per cantare insieme Valore assoluto.

Mi aveva contattata su Instagram, ero incredula.

Anche Max Gazzè.

Il suo manager Francesco Barbaro mi fece aprire i suoi concerti. E nel 2017 uscimmo con Pezzo di me. L’avevo scritta prima in inglese (e la canta, ndr).

Alfonso, il protagonista della tua canzone più famosa, chi era?

Uno che faceva rima con stronzo. È la persona ben inserita nella società, sicura di sé, che ha le verità in tasca. Io avevo incontrato questo coglionazzo di Torino a una festa. E gli ho dedicato la strofa “che vita di merda”.

Più che una canzone era la sceneggiatura di un film. Come la tua ultima, Metro. Storia finita 7 anni fa. Di chi parli?

Mi ha ispirato Corrado Fortuna, l’ho incontrato una mattina in metro e ho rivisto il ragazzo del video di Ciao per sempre. È una lettera, la descrizione di un momento.

Nella serata dei duetti di Sanremo hai cantato Vivere, di Vasco Rossi. Vi siete sentiti?

Mi ha scritto: “Il talento ce l’hai, ora vai avanti”.

C’è solidarietà tra le donne dello spettacolo?

Sì. La mia vita è costellata di donne.

Dinne una.

Carmen Consoli.

L’hai già citata.

Laura Pausini. La prima a mandarmi i fiori in ospedale quando è nata Alma.

Che ne pensi del commento del vincitore Marco Mengoni, sul podio di Sanremo tutto al maschile?

Vero. Se sei femmina ti tolgono tutto. Forse abbiamo rotto le palle a dirlo, ma è così. La sera della finale, tra me dicevo: “Almeno Madame ce la deve fare”. Non è successo. Il risultato ha parlato.

Sei arrivata ventitreesima su ventotto cantanti in gara. Cosa non ha funzionato?

La crisi dopo il parto esiste ma è difficile da raccontare. Avevo proposto anche un’altra canzone, Mi manchi, più romantica. Era una ballata, ma mi è stato chiesto di rischiare. E l’ho fatto.

Cos’hai portato a casa da questa storia?

Ho salutato la parentesi buia che racconto in Vivo. Mi sono vista potente su quel palco: tutina di pelle, capelli platino, occhi neri. E cantavo: «Vivo come viene, vivo il male e vivo il bene, vivo per chi resta e chi scompare, vivo il digitale, vivo l’uomo e l’animale» (la canta, ndr). Mi sono liberata di una parte di me che non mi avrà più. Per questo indietro non ci voglio più guardare.

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