Le convinzioni più consolidate su come il nostro universo finirà vanno riconsiderate.

A trasmetterci la buona notizia è il Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), realizzato presso il Kitt Peak National Observatory, in Arizona. Si tratta di un sofisticatissimo telescopio capace di operare un’analisi spettroscopica su varie galassie in parallelo, al fine di tracciarne l’evoluzione temporale. La notizia è buona perché potrebbe esorcizzare l’inquietante scenario di un universo che va via via espandendosi, fino a raggiungere uno stato in cui nessuna sua parte è a contatto con nessun’altra, così da esaurire ogni energia e spegnere ogni luce.

L’espansione

In una diretta radiofonica della Bbc del marzo 1949, a mo’ di provocazione, il fisico inglese Fred Hoyle forgiò l’espressione “grande scoppio” (in inglese, “big bang”). Si riferiva così a una proposta, molto controversa al tempo, secondo cui l’universo non sarebbe stazionario, perché la distanza tra le sue componenti non risulterebbe costante nel tempo. L’universo si andrebbe via via sviluppando secondo diverse fasi, a partire da quel grande scoppio che suscitava l’ironia di Hoyle. Eppure, grazie a una serie di evidenze, l’idea di un universo in espansione prevalse, sino a consolidarsi nel cosiddetto “modello cosmologico standard”, giunto a piena maturazione alla fine degli anni Novanta.

L’aspetto più singolare dell’intera vicenda sta nel fatto che, per garantire la compatibilità con le osservazioni sperimentali raccolte, tale modello deve assumere che l’universo sia composto solo in minima parte dalla materia che più ci è familiare, quella di cui sono fatti i pianeti del sistema solare, gli oggetti della nostra quotidianità, come tavoli o sedie, o ancora gli atomi e le molecole che formano i fluidi o i metalli. Si ritiene che questo tipo di materia, detta “ordinaria”, costituisca appena il 5 per cento dell’intero contenuto dell’universo.

La restante percentuale sarebbe da spartirsi tra due entità piuttosto elusive, la “materia oscura” (25 per cento) e l’“energia oscura” (70 per cento), laddove il termine “oscurità” vuole indicare proprietà del tutto peculiari, come ad esempio il fatto che queste entità non assorbono né emettono radiazione elettromagnetica, in modo tale da non risultare osservabili in maniera diretta agli strumenti di misura tipicamente adoperati in fisica astronomica.

L’ipotesi dell’energia oscura si è resa necessaria, alla fine degli anni Novanta, perché capace di spiegare come mai l’espansione dell’universo stia accelerando anziché rallentare. Già Albert Einstein aveva prefigurato, in maniera del tutto congetturale, l’esistenza di un fattore di correzione alla sua stessa teoria della relatività generale: una “costante cosmologica” che potesse bilanciare l’effetto di contrazione esercitato dalla forza gravitazionale.

Sulla scia di tale intuizione, si è diffuso negli ultimi tre decenni il convincimento per cui l’energia oscura funzioni proprio come la costante cosmologica e che quindi essa sia, al contrario di altre forme di energia a noi note, una quantità non soggetta a variazione.

I dati

Eppure potrebbe non essere così. I dati raccolti dal Desi tra maggio 2021 e giugno 2022 sembrerebbero smentire l’ipotesi della costante: le galassie a noi più vicine nello spazio e nel tempo lo sono un po’ troppo, come se la forza repulsiva dell’energia oscura avesse in qualche modo iniziato ad affievolirsi. Se così fosse, potremmo dover ripensare interamente il modo in cui il nostro universo va evolvendosi.

Un’energia oscura costante indicherebbe, secondo una delle più accreditate teorie sul destino dell’universo, una dirittura desolante, con gli atomi che tenderebbero alla disintegrazione e un universo privo di luce, energia e vita. Una “morte termica”, in cui non si avrebbe più alcuna energia per compiere alcuna evoluzione da uno stato a un altro.

All’opposto, la variabilità dell’energia oscura aprirebbe a ipotesi alternative meno desolanti. Il destino del cosmo verrebbe allora a dipendere dalla velocità con cui diminuisce, e fino a che punto, quel valore che si credeva costante. Se l’energia oscura raggiungesse lo zero, l’accelerazione cosmica potrebbe arrestarsi. Se scendesse significativamente al di sotto dello zero, l’espansione dello spazio si rivolgerebbe in una lenta contrazione, il tipo di inversione necessaria per le cosiddette teorie cicliche della cosmologia.

Insomma, di qui al 2026, chiusura del ciclo quinquennale della ricerca con Desi, i dati raccolti potrebbero confermare questa ipotesi di nuova fisica e svelarci il segreto di come il nostro universo, tra alcuni miliardi di anni, provvederà alla propria quiescenza oppure quanto, e con quale espediente, questa potrà essere rimandata potenzialmente all’infinito.

© Riproduzione riservata