Visitare la mostra “Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists II” (in corso al MAXXI di Roma fino al 20 ottobre) significa scegliere di mettersi al centro delle opere, esperirle, attraversarle, attivarle e rifletterci.

Curata da Andrea Lissoni, Marina Pugliese e Francesco Stocchi, si tratta della seconda tappa di un progetto nato all’Haus der Kunst di Monaco di Baviera e che in questo caso non si ferma più a una ricognizione che arriva al 1976 (come fu nella precedente occasione) ma prosegue per arrivare a mostrare opere degli anni più recenti, fino al 2010.

Una mostra che calza perfettamente, sia concettualmente sia fisicamente, all’interno di un museo architettonicamente così complesso come il MAXXI, progettato da Zaha Hadid e che in questo caso diventa idealmente un macro-ambiente, ideato da un’architetta, che ne ospita altri realizzati e immaginati da artiste di generazioni e latitudini diverse.

Opere effimere

Gli ambienti realizzati da artisti e artiste sono di per sé una tipologia di opere piuttosto effimere, poiché per loro stessa natura sono finite spesso smantellate e di conseguenza sono state storicizzate con maggiori difficoltà.

Ancor più difficile è, come sempre, il tentativo di ricostruire il contributo dato dalle artiste, da sempre adombrate nella narrazione scritta per lo più da storici dell’arte dell’altro sesso.

Questa esposizione cerca quindi di colmare due vuoti: ricostruire dei progetti che altrimenti non si sarebbero potuti esperire e ricollocare le artiste all’interno di questo racconto.

Il percorso espositivo non segue però un ordine cronologico ma, portando degli ambienti dentro a un altro ambiente molto connotato, si dispiega assecondando la fluidità dello spazio architettonico, chiedendo a chi lo percorre la stessa disinvoltura nel passare da un’esperienza a quella successiva.

L’esposizione

Accade così di potersi adagiare ascoltando i Beatles in un angolo di gioiosa solitudine e raccoglimento dentro a !Revuélquese y viva! di Marta Minujin del 1964, un rifugio morbido e colorato fatto di materassi di diverse forme dipinti a mano. Si possono anche attraversare i colori dell’arcobaleno dentro a Spectral Passage realizzato da Aleksandra Kasuba nel 1975, una sorta di straniante paesaggio lunare dalle forme sinuose in tessuto nel quale a volte siamo costretti ad abbassarci.

Ipnotico è poi Sip My Ocean del 1996, lavoro psichedelico di Pipilotti Rist all’interno del quale ci si può comodamente adagiare e lasciarsi trasportare dal fluire delle immagini in movimento, girate in acqua, che scorrono sulle note di Wicked Game di Chris Isaak.

Lygia Clark e Lea Lubin hanno invece realizzato delle opere che invitano a ragionare sul primo ambiente di cui ogni essere umano ha fatto esperienza, seppur senza ricordarlo: quello prenatale. Se la prima ci chiede di intraprendere un percorso a tratti buio e scomodo in A casa é o corpo. Penetraçao, ovulaçao, germinaçao, expulsao (del 1968), dove troviamo un momento di quiete solo al centro, la seconda in Penetración /Expulsión (del 1970) ci invita a riprovare almeno parzialmente, attraverso un enorme gonfiabile trasparente, l’immenso sforzo fisico che richiedono concepimento e nascita.

La candida stanza di Feather Room, opera di Judy Chicago del 1966, è invece un luogo colmo di piume, materiale che, a differenza di ciò a cui la storia dell’arte per lo più maschile ci ha abituato, non è certo monumentale e duraturo, al contrario è fragile e deperibile. Affascinante anche l’Ambiente cronotopico di Nanda Vigo, del 1967, all’interno del quale, circondati da pareti specchianti e retroilluminate, vediamo la nostra immagine moltiplicarsi nella luce colorata.

Tra le opere più recenti, invece, c’è per esempio Sleeplessness del 2003 di Micol Assaël, un doppio ambiente che crea e una sensazione di disagio e di pericolo nel visitatore. Ci si ritrova dentro a un primo spazio colpito da un cortocircuito e nel quale le prese della corrente sembrano emettere fumo, mentre una volta passati nella seconda stanza si è all’interno di una sorta di rumorosa e glaciale cella frigorifera.

Particolarmente impegnato è poi il lavoro di Martha Rosler, If You Lived Here… avviato nel 1989 e tutt’ora in corso, che, all’interno della ricostruzione di un ambiente domestico, invita, attraverso documenti, poster, libri e video, a ragionare sulla questione dell’emergenza abitativa e sulle sue difficoltà e implicazioni nelle metropoli in crescita e sempre più orientate verso la speculazione.

Attivazione consapevole

All’interno di tutti questi lavori, come negli altri presenti in mostra, mentre la contemplazione cede il passo alla dimensione esperienziale, il nostro corpo e la nostra mente, si trovano al centro dell’opera, ne sono circondati.

L’unico rischio, decisamente sventato, che questa mostra avrebbe potuto correre sarebbe stato quello di essere percepita come un colto luogo d’intrattenimento, l’antidoto è stato messo in atto da un grande lavoro di ricerca, ricostruzione storica e curatela (ottimamente condensati nell’imponente catalogo edito da Qudlibet).

Qui infatti non siamo davanti a un’esperienza puramente estetico-emozionale o da selfie instagrammabile, ogni opera richiede un’azione e uno sforzo di attivazione consapevole e non sempre edificante. Ogni lavoro smuove in ognuno sensazioni e riflessioni differenti, non c’è un’unica modalità di fruizione e chi sceglie di sperimentare non lo fa in modo inerte ma è costretto a utilizzare, insieme al movimento del proprio corpo, anche quello del proprio pensiero.

In un momento storico in cui, come spiega bene Lissoni, abbiamo costantemente a che fare con tecnologie digitali che creano ambienti virtuali, con i quali ci relazioniamo pressoché tutte e tutti e dentro ai quali, aggiungerei, veniamo fagocitati spesso inconsapevolmente e nel peggiore dei casi passivamente, è più che mai importante lasciare che le menti vengano attivate dalla concretezza di questi luoghi visionari, inusuali e bizzarri.

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