ll Paradiso è il vuoto. Un vuoto gigantesco, decorato, slabbrato e infinitamente chic dentro il quale venire mollemente risucchiati. Il Paradiso è una gigantesca tenuta – «una RSA per eccentrici babbioni», dice qualcuno – dove in fondo è bello rinunciare a vivere il mondo fuori, grazie alle stampelle di rituali vuoti ma pieni di buon gusto. Il Paradiso è un romanzo di Michele Masneri per Adelphi. Michele Masneri è indiscutibilmente il migliore writer (alla «New Yorker») del panorama italiano, specialità non comune, anzi. Studia, si documenta, scava, poi se esce fuori ogni volta con due pagine al fulmicotone sul Foglio, piene di humour e fantastiche punzecchiature alla classe dirigente italiana, soprattutto.

È pugnace, sta su ogni partita della cronaca, specie mondana. Guy Talese come maestro? Beh sì, ma anche Evelyn Waugh e Capote cronisti. Federico, il “giovane” giornalista trentenne protagonista del libro, è lui stesso di qualche anno fa, richiesto di un’intervista al megaregista ovviamente cafone romano dalla sua rivista paga-bollette (se paga) «Comic Sans», che si intuisce essere «Rivista Studio» (bella testata che esiste solo per specifici conoscitori, diciamo).

La storia

Masneri ricama qui e là uno dei suoi disegni classici: la contrapposizione tra Milano appunto e Roma, che gli è valsa pure finte polemiche e qui viene riassunta in un fulmineo «Milano è come una infinita Tuscolana, solo tenuta bene».

Ottimo, come ottime sono alcune delle battute che punteggiano le 182 pagine del romanzo. Alla ricerca di questo registone nel pieno di un’estate caldissima, Federico viene appunto spedito a Roma, attraversa la piazza Vittorio dove abitano quelli del cinema e si imbatte nel personaggio centrale dell'ordito narrativo: l'adorabile Barry Volpicelli, già scrittore di fantastici reportage dalla East Coast della fine degli anni Sessanta, una California dalla quale ha scavato la Rolls Royce scassata, e con la quale – per dirne una – diede un passaggio ai Jefferson Airplane dell'epoca. Impossibile a questo punto non ricordare il libro di reportage (Steve Jobs non abita più qui, sempre per Adelphi) in cui Masneri racconta la California a cavallo di questi ultimi due decenni.

E questo non può che creare un gioco di rimandi e che immediatamente va a favore del passato, ed in particolare della seconda parte del Novecento: dall'adorato Arbasino (e qualche vago ego di quest'ultimo girovago per il litorale romano qui c'è, insieme al resto della banda: Moravia, ecc) al giornalismo fatto benissimo de «Il Mondo» e soprattutto ad un certo marellagnellesco gusto per lo chic modern, con magioni e antiquariato (e vasellame) di enorme livello per il quale Masneri esce di testa. Quando non direttamente per certa aristocrazia di altissimo lignaggio, non importa se semi-sfranta o no.

L'antico potere, prima di ogni altra cosa, e tuttora sopra tutti. Se poi lo mischiamo, come in questo caso, ai trascorsi controculturali a San Francisco della stessa padrona di casa della tenuta, beh ecco che tutto torna. Il romanzo è chiaramente frutto di una tornitura notevole, molto lontana dalla prosa classica masneriana che qui invece diventa diretta, veloce, secca, spinta a dare propulsione continua alla narrazione (per renderla “semplice”, senza però che questo possa essere scambiato come diminutivo, sia ben chiaro).

Tutto diventa mano a mano privo d'urgenza e, abbandonata la paraefficienza lombarda (dalla quale l'autore proviene, attenzione: è di Brescia), i confini delle cose iniziano a tremolare sotto l'afa, gli incontri ricordano in modo esplicito quello di Flaiano con Risi, il fiato mano a mano rallenta dentro modi di vivere rilasciati che Federico assimila da Barry, che ammira. E così – mano a mano che l'urgenza dell'intervista viene meno anche per il direttore hip della rivistina – la mollezza della tenuta, il ritmo dei pranzi e delle cene diventa regolare (nonostante le pretese di “digiuno intermittente”), i confini tra sonno e veglia e tra i giorni della settimana si sfaldano. E fortunatamente si sfalda l'identità già barcollante del protagonista, che non riesce più ad uscire di lì, nemmeno di fronte alla visita del fidanzato efficiente costruttore di bilocali in zona Piazzale Loreto e che lo vuole trascinare nella solita Stromboli. A divertirsi, poi. Ma figuriamoci.

Dietro il suo impianto tutto sommato classico ("giallo' incluso”) Paradiso ci racconta – in modo stropicciato come un vecchio, vestito di lino di grande qualità – della rinuncia di un'intera generazione di lavoratori della conoscenza contemporanei a partecipare ad uno scacchiere culturale immaginario e ormai inesistente. Federico ne comprende l'inutilità e per questo ne abbraccia la parte più autentica di ciò che rimane del Vecchio Mondo.

Rinuncia alla lotta e anche a sé, in modo alla fine più radicale di quello agito dagli stessi ospiti della tenuta. Per questo Paradiso, che rilassato e suadente proprio non è, prende l’anima di un romanzo alla fine doloroso, perché con spietatezza chirurgica disossa il protagonista, come si fa con il pollo bollito in uno degli squisiti piatti della padrona di casa. E soltanto non vivendo Federico trova l'interstizio tra reale e irreale che desiderava, non potendo tollerare il presente.

Per paradosso, annegando dentro i muri delle casette per gli ospiti e i bicchieri sbreccati dell'aristocrazia andata in malora, il protagonista compie una scelta radicale, una delle migliori possibili dentro la carne di quella sua vita da partita IVA che rifiuta. Una scelta profondamente politica: dargliela su (come si dice a Bologna, cambiamo città almeno), scendere dal carro inutile, svanire nel bello. E ciao.

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