Avevo scritto una poesia circa 45 anni fa per Patrizia Cavalli:

Se ti dicessi che sei il mio sole

Non avresti più luce né calore

Ed è per non cacciarti dal mio cielo

Che a te taccio della tua bellezza almeno.

Ti parlo di altri mondi, nuovi amori

E seguo negli occhi tuoi ansiosi

La nube minacciosa che s’avanza

E l’ombra che lo sguardo ti scolora

Or basta, te ne prego,

ti sfugge in un sospiro

Ma subito ti accorgi

E ti forzi ad un sorriso.

Ma breve il raggio già m’ha baciato

Al tuo cuor nudo, e senza più riparo,

In silenziosa gioia affido

L’amor segreto che m’ha torturato

Era tutto scherzoso, un po’ sopra le righe, Patrizia non amava gli uomini e io non ero innamorato di lei, ma eravamo molto vicini. Elsa Morante, attraverso cui l’avevo conosciuta e che era amica di tutti e due, non aveva, o forse non aveva più, quello che gli inglesi chiamano small talk, la conversazione su cose qualunque e senza impegno.

Con Elsa parlava subito, o almeno con me e credo con lei, con grande intensità e di questioni massime, dall’esistenza di Dio alla responsabilità civica nei confronti del fascismo, dalla natura dell’amore e dell’erotismo a cosa significhi scrivere. Quali responsabilità di fronte a se stessi e al mondo scrivere implichi. Tanto che se anche non sono state le sue scelte stilistiche a farmi da modello, perché lei rispondeva ad altri contesti e in altro modo e poi perché in fondo scrivendo non si hanno mai veri maestri, la responsabilità, l’impegno li sentivo tutti e hanno dato forma a un atteggiamento nei confronti della letteratura che è poi durato sempre e sento ancora.

Elsa non voleva allievi, naturalmente, non insegnava una materia, ma con Patrizia accoglievamo insieme la sua intensissima presenza, la svolgevamo e ci vedevamo anche dopo. A un certo punto Patrizia mi disse che non le avrebbe presentato una fidanzata, e capii perché. Tutta la vita finiva in una materia che Elsa leggeva a fondo e era in grado di capire e assorbire, e dirti molto francamente, cose che pensava e che, con una grande differenza di età, né io né Patrizia eravamo in grado di sostenere.

Tra me e Patrizia c’era invece anche un tono più scherzoso, alla Cherubino, fatto di avvistamenti, giochi, pegni, con altri e noi due, che forse proprio per la mancanza di un terreno erotico produceva una complicità che ho avuto con pochi altri esseri umani, e che ho sempre ritrovato quando ci siamo reincontrati.

Le differenze

L’ultima volta, quando venne a Venezia per il Campiello, ed era già malata, tanto che io trovai tutta la faccenda un po’ crudele con lei cui ormai mancava il guizzo che intimoriva e coglieva chiunque in una battuta, alla fine aveva freddo e l’accompagnai in camera. Voleva mettere una calzamaglia sotto i pantaloni e per discrezione le chiesi se voleva che uscissi dalla stanza. Patrizia mi sorrise: «A Enrì, ma che stai a dì?». In effetti il mio era uno strano scrupolo per quanto eravamo stati a nostro agio in passato e per come era ridotta adesso, e l’aiutai a sfilare i pantaloni e infilare un’altra calzamaglia sopra quella che già aveva.

La mia poesiola non le era piaciuta, 45 anni prima, mentre i romanzi, quando li leggeva, credo li sentisse, anche se in fondo le erano lontani. Ero andato a vivere a Londra e una volta aveva detto a qualcuno: ma che voleva Enrico? Qui lo invitavano tutti a cena… E già, in fondo volevo crearmi dei problemi, o meglio, articolavo quelli che c’erano. Anche qui Elsa ci aveva letto bene, con le nostre differenze.

Per Patrizia la società era una magnifica passeggiata per Campo dei Fiori, per me, già da Boccalone, c’erano fughe, lacerazioni, sradicamenti, ritorni. Inoltre il verso era già l’impegno centrale di Patrizia, mentre la dozzina di poesie lunghe o brevi che ho scritto io sono nate sempre al fianco dei romanzi, che sono stati per me il centro del cammino.

La vicinanza

Ma in questa poesia, o canzonetta, c’è un sorriso di resa, ed è di questo che vorrei dire qualcosa. Patrizia, come Elsa, mia madre, mia moglie Jenny e credo tutte le donne che mi hanno voluto bene, sono sempre state facilmente irritate da me. Forse è il fatto che quando ci si ritrova vicini si vedono subito le guardie alla frontiera. La vicinanza accade a volte per caso, un viaggio in treno, un pericolo improvviso, altre perché cerchiamo con determinazione questa prossimità, altre ancora, come nel caso di mia madre o nei rapporti erotici, perché questa è la situazione: si è vicini, è innegabile!

A quella prossimità, quando l’altro e poco oltre il nostro naso, avvertiamo ogni movimento esteriore e interiore, se si distrae da noi, se pensa qualcosa, o se non lo pensa e quindi non coglie quello che anche se non detto ci sembra sia evidente, lì, tra noi. Così ci può irritare come si muove, se fa cadere un bicchiere, come distoglie lo sguardo o se ritorna e con quale sincerità, se guarda un’altra o un altro per strada o oltre noi a una festa, se si lascia vincere dalla vanità, o dalla pigrizia, se non è all’altezza di quello che ci sembra di sentire insieme. Sono circostanze in cui l’io è anche un noi, ma siccome non può essere un noi, avverte la distonia, la separazione, il confine come qualcosa di doloroso e sempre sorvegliato da guardie da una parte e dall’altra. Una battaglia senza sosta, che tra amanti si scioglie con baci, abbracci e orgasmi ma che può anche essere fatta di baci, abbracci e orgasmi mancati.

Con Patrizia, mancandoci l’erotismo, questa tensione restava nell’aria: sapevamo chiaramente tutti e due da subito, essendo reciprocamente implicati da uno strano sortilegio di Elsa che a volte ci metteva in competizione (non letteraria, ma esistenziale) e sentendo l’impegno che da lei avevamo ereditato, che ogni incontro era anche letterario. Perché letteratura non era un’altra cosa, era l’essenza, l’attenzione al vivere, la mancanza di secondi fini, l’esserci da cui anche lo sforzo di esserci rischia di rivelare un’assenza.

Una fuga, un timore, e quindi alla fine un non essere qui. Perché coraggio e paura non sono che forme dell’essere, e quindi il coraggio è semplicemente essere presenti a quello che si è, come la paura e il non esserci. Una disciplina così radicale trasmessa da Elsa che non possiamo non tradire costantemente perché non siamo angeli ma fatti di cose umane, passioni a volte sbagliate, o effimere, vanità, errori e altri errori. Secondo me sentivamo questo nodo nello sguardo di Elsa tra noi, quasi avesse potuto giudicare le nostre scelte anche quando non c’era e non sapeva nulla di quello che dicevamo o facevamo io e Patrizia. Così parlavamo volentieri di altri amori, ed era questo il contesto della mia canzonetta.

Andare bene così

Ma era anche e soprattutto il sorriso, come con Elsa, mia madre, Jenny. Quando una persona che è così facilmente irritata con noi, e lo è perché siamo vicini eppure pesanti, distratti, sempre altrove, con la testa in libri da scrivere e vita da vivere, quando una persona che ci ama tanto da dover sorvegliare costantemente la frontiera ci sorride, c’è una resa. Ci dice vai bene, o comunque io ti voglio bene, mi vai bene così. Come dice una celebre battuta inglese: a friend i somone who likes even though they know you. Un amico è qualcuno a cui piaci nonostante il fatto che ti conosca.

In questi sorrisi c’è una resa, lo smettere di correggere, un accoglierti sebbene in quel sorriso sanno che tu potrai di nuovo distrarti, che hai oltrepassato la frontiera e forse hai delle sigarette di contrabbando, o hai rubato dei segreti di stato, o ti sei incontrato con i sovversivi. Ti ho lasciato entrare, non devastare le mie terre.

© Riproduzione riservata