La più grande collezione di falli al mondo è sotto chiave in una stanza del Vaticano, vicino alla Cappella Sistina. Sono i peni di pietra scalpellati per decenza dalle statue nel corso dei secoli. «Belli in fila col loro bravo cartellino, farebbero la gioia di tutti i gay».
La strage dei piselli ad opera del Vaticano è solo un tassello del monumento pagano all’Urbe che Roberto D’Agostino, Sire di Dagospia, ha affidato allo schermo.

La tesi è che amare Roma è facile, capirla è più che impossibile, è inutile. Giusto per contraddirsi, ha compilato in coppia con Marco Giusti il Decamerone opulento di una città «che è una città come una sedia elettrica è una sedia». Regia e fotografia sono di Daniele Ciprì, una certezza.

Roma, santa e dannata, che è minimalista definire documentario, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma. È più che altro la peregrinazione irriverente di una coppia che fa da cerniera tra Dante – Virgilio e Tomas “Monnezza” Milian – Bombolo. Così la vede Marco Giusti. 

Insisto sul Decamerone per analogia: è un flusso di personaggi  portatori di novelle, aneddoti, risvolti pagani sconosciuti ai più, patrimonio però privato di Dago (R D’A per intero è obsoleto). Manca la peste, ma Boccaccio “ci sta”. E dopotutto – acconsente Dago – Le Mille e Una Notte e il Decamerone sono la base culturale di oriente e occidente.

Il labirinto

A monte c’è Belli: «Roma caput mundi e chiavica del mondo». Ci sono Flaiano e Fellini: «Un immenso cimitero brulicante di vita». C’è la dolce vita declinata a ripetizione dal cinema e c’è La Grande Bellezza. Il primo progetto del film, nato in piena pandemia, prevedeva Paolo Sorrentino regista (è rimasto, ma da produttore).

Se non puoi risolvere con un film l’“enigma Roma” puoi spiegare la sua unicità: è il solo posto in cui la città di Dio e la città degli uomini vanno a braccetto, sacro e profano si fondono. «La sua capacità di andare oltre i limiti della morale, con leggerezza e con mignottaggine, non ha uguali nel mondo», sostiene Dago in veste dantesca.

E dato che «la via diritta è un labirinto» ( come ammoniva la scritta su un antico sarcofago) la coppia di viaggiatori urbani scivola nel labirinto, rigorosamente al calar delle tenebre, armata di dissonante sapienza, battutacce feroci e cinismo cialtrone.

La notte

Il dionisiaco è più stuzzicante se in promiscuità con l’acqua santa. La prima tappa del tour è quindi il Muccassassina, inquilino del Vaticano, alla sua nascita, nei locali che avevano già ospitato un cinema a luci rosse e si sarebbero riconvertiti in ufficio stampa del Giubileo. Il disinvolto affitto bipartisan sembra una barzelletta, ma è tutto vero.

L’antesignano dei templi gay furoreggiava a cento metri dal Cupolone.
Con l’epopea notturna delle prime drag queen, dei «travestiti  part-time» degli «eteroflessibili» e della «musica frocia che ci faceva sbattere come capitoni», è Vladimir Luxuria a rievocare anche l’ipocrisia di illustri frequentatori abituali: «Quanti ne ho visti che di giorno esaltano i valori della famiglia e di notte li vedi calati a 90 gradi in un parco, e non per raccogliere margherite».

Le scorribande notturne di Carlo Verdone in quegli anni Ottanta, a rimorchio dell’insonne compagno di banco Christian De Sica, sono meno trasgressive e più Roma-bene. Marco Giusti, che come me è un “burino”( termine che Dago riserva a chiunque sia arrivato nell’Urbe da fuori), come me non ha memoria di locali come il Number One, il Kinky, lo Scarabocchi, e degli exploit offerti su un piatto d’argento a paparazzi e avventori.

Dobbiamo fidarci della colorita prosa verdoniana per immaginare Helmut Berger che balla nudo sul tavolo tirando noccioline e una giovanissima Monica Guerritore che rimorchia a freddo Alain Delon piantando in asso come merluzzi i suoi chaperon, Carlo e Christian. È mondanità ingiallita, roba del secolo scorso, sul filo della nostalgia. I troppo nostalgici magari sognano che il film rivanghi l’epica sigla di Quelli della Notte, starring un giovane Dago, ma no. Troppo frivola.

La scappatella del papa polacco resocontata da un altro guest, Giorgio Assumma, è più castigata, ma non sfigura tra gli aneddoti da leggenda. È la storia del novizio del soglio, arzillo e ansioso di libertà nei suoi verdi 58 anni, che se la svigna alla chetichella col suo segretario di Cracovia per godersi in incognito una sana mangiata e bevuta a Trastevere. Al ritorno però le guardie svizzere bloccano il sacerdote ignoto privo di documenti.

Il lato comico sta meno nel giro delle sette chiese (mai locuzione fu più appropriata) dei due ribelli inguaiati che nello spiritaccio romano profuso dal piantone del commissariato, risorsa estrema: «Scusa ma se sei il papa possibile che non hai le chiavi di casa?». 

Il Potere

«La forza che ha sempre avuto questa città è la chiacchiera», sostiene Dago, da Pereira romano, «il vero lavoro è tessere relazioni, combinare incontri: l’attovagliamento». C’è un nesso logico tra le chiacchiere che sono il nerbo del film e l’essenza ultima del Potere romano. Fa legge la “teoria della patata”. Come la patata, il Potere romano «ha radici sotterranee, invisibili, ma profonde e tenaci: Corte dei conti, Consiglio di stato, Consulta, Cassazione, Servizi segreti, militari, quella sorta di logge, di mafia».

La morale è che questa ragnatela d’acciaio resiste a qualsiasi barbaro in trasferta nella città eterna. «Qualsiasi burattino arrivi a palazzo Chigi sappiamo benissimo che appena diventa inaffidabile zac! lo mandiamo a casa». Perché allora andare a votare? Francesco Cossiga docet, secondo Dago (mi perdoni Tabucchi per l’iterazione): «Il voto serve ma non apparecchia», diceva.

La vitalità del Potere ha la sua apoteosi nei funerali. Tra le pochissime coperture di repertorio usate nel film spiccano i minuetti delle esequie eccellenti, con la pattuglia dei presenzialisti ostinati. Nel montaggio, Fausto Bertinotti e signora, Gianni Letta e Bruno Vespa sono i più assidui. «È una comunità che si riconosce perché va ai funerali comunque, anche senza aver conosciuto il defunto: è un’occasione imperdibile per convertire un evento tragico in party». 

Quando si affronta il capitolo Silvio Berlusconi ( «l’unico milanese che si è veramente romanizzato, non solo politicamente»), Sergio Vanzina sale sul banco dei testimoni col suo fardello di aneddoti. La tesi è che il Cavaliere ha assorbito il primo comandamento di Andreotti: i nemici non si combattono, o li seduci o li compri. In più, «a livello privato scopre la caciara sul letto, quella filosofia de noantri che Roma pratica da sempre». 

Niente amanti, costano troppo. Meglio incaricare un’ape regina – «cioè una pappona» – che mette insieme un giro di donzellette in grado di soddisfare tutti. La natura delle rimembranze in materia è grossière, e per contiguità chiama in causa i fiaschi galanti di Gianni Agnelli e il “socialismo afrodisiaco” di Craxi. Sandra Milo, Vera Gemma, Massimo Ceccherini: la polifonia è sfaccettata e riabilita i “sovversivi” Maurizio Arena, Ilona Staller onorevole, Moana Pozzi. Chi è stato il ghostwriter del libro di Moana? Indovinate.

Il pettegolezzo

Le storie-clou dell’opera, le più care al cuore di Dago, sono però  legate a un trionfo e a un naufragio epocali della controcultura. Trionfale fu la performance del Living Theatre nel 1968 davanti all’ultra-destra facoltà di Legge, con quei magnifici venti attori nudi che paralizzarono, magicamente, i picchiatori abituali, proclamando libertà eretiche.

Comicamente rovinoso – nella cronaca di Verdone – il Festival dei Poeti di Castelporziano, che nel 1979 seppellì un’epoca nella pasta e fagioli. Bilancio finale? Un’onda anomala di ghiotti, spudorati, inediti e stimolanti pettegolezzi.

«Perché il pettegolezzo», sempre secondo Dago, «è la vera informazione e la vera letteratura». Cos’hanno fatto i quotidiani autorevoli sul caso Giambruno, se non Dagospia? «Quando lo facevo io, lo chiamavano trash».

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