La direzione artistica di Sanremo, da un punto di vista strettamente musicale, ha dimostrato in questi tre anni di saper fare scelte opportune e non anacronistiche. Poi però quando ci parla lo fa in collegamento da un universo parallelo. Un universo parallelo, si direbbe, del tutto identico al nostro fatto salvo per alcune specifiche categorie interpretative della realtà.

Le canzoni che parlano di sesso vengono proposte come canzoni che parlano d’amore (Iva Zanicchi), quelle che parlano della fine di una relazione disfunzionale come se parlassero di una separazione consensuale standard con contorno di volemose bene (Highsnob e Hu), quelle che parlano di rivoluzione come se parlassero di buoni sentimenti parrocchiali (La rappresentante di lista).

Sembra quasi che Amadeus abbia paura di essere rimproverato da «Edivige la zia» (per citare non a caso Vasco Rossi, uno che nella sua vita professionale non ha avuto paura neanche di dio, e dunque ha fatto la storia della musica di questo paese).

Sono state in questo senso emblematiche l’introduzione e il congedo del pezzo di Tananai (sulle cui qualità o mancanza delle medesime non ci soffermeremo in questa sede). Si chiama Sesso occasionale e, per stessa ammissione dell’autore, non parla del tema indicato nel titolo ma di un uomo che esprime l’intenzione di rinunciare alle avventure estemporanee.

Non è chiaro, però, se le affermazioni di Tananai sui propri intenti possano giustificare gli stati di ansia in cui Amadeus pareva precipitato nel presentarlo, ed espressi con il seguente ordine: specificare che la canzone è un «vero e proprio inno all’amore monogamo», fermare il cantante prima dell’esibizione appositamente per chiedergli conferma del suo essere fidanzato e dunque monogamo, fermarlo a fine esibizione onde porgergli il rituale mazzo di fiori, ma specificando che si tratta di un omaggio per la fidanzata.

Di Rettore e Ditonellapiaga verrà detto che portano un brano «in cui due generazioni a confronto sono unite dalla missione di sollecitare i giovani a riconquistare la gioia e la spensieratezza messa a dura prova da questo periodo». A non conoscere le due artiste ti aspetteresti quasi il coro della Pro Loco, se non fosse che un attimo dopo le trovi a esclamare sul palco cose come: «E non m’importa del pudore, delle suore me ne sbatto totalmente».

Questo perché Chimica è un duetto micidiale che ricorda i fasti del 1987, quando la stessa Miss Rettore cantava insieme a Giuni Russo la hit Adrenalina («Il mio sistema è stanco di un erotismo in bianco»; «Si chiama adrenalina, non è la cocaina/Prodotto naturale anche concesso dallo stato»), ma anche quella pazza canzone di Natale del 1996 intitolata Lasciamo vivere gli abeti, coloriamo le suore.

Canto della pandemia

Rettore, cerchiamo di capirci, non ha mai avuto paura di cantare né l’erotismo né una giocosa blasfemia e, in Ditonellapiaga, ha trovato la sodale perfetta. In un 2022 ancora vessato da necessari distanziamenti Chimica invita e invoglia chiunque, a prescindere dai dati anagrafici, a cercare di riprendere le redini del proprio corpo e farne ciò che si crede, magari prescindendo dal giogo dell’amore romantico. Ad analizzare il testo, ma anche a guardarne l’iconico video, rimane un fitto mistero dove Amadeus abbia rilevato che il target fossero dei fantomatici «giovani».

La quota canto della pandemia va invece quest’anno a La rappresentante di lista. LRDL con Ciao ciao cantano che la fine del mondo esiste, ma non corrisponde necessariamente alla fine della politica e, tutto sommato, neanche alla fine della festa («Questa è l’ora della fine/romperemo tutte le vetrine»).

A sottolineare il concetto, nella terza serata, Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina hanno sceso la scalinata dell’Ariston vestiti in abito e completo rosa confetto, confezionati in modo che le metà inferiori apparissero come reperti non sopravvissuti a un incendio. Ciao ciao è stata presentata come: «Due parole semplici come l’inizio di tutto, di un incontro, di una storia, ma anche di un saluto».

Apri tutte le porte

Gianni Morandi porta un testo scritto da Jovanotti che, in accoppiata con l’allegria della musica, crea un effetto straniante. A leggere le parole di Apri tutte le porte scevre da melodia ci si trova di fronte al canto di una persona prostrata dal male oscuro che ottenebra la mente e impedisce l’azione, anche la più banale («A forza di credere che il male passerà, sto passando io»; «Mi devo trascinare presto fuori di qua/Dai miei pensieri pigri nella testa/Fare qualcosa/Oppormi all’inerzia»).

Se, come cantava Max Gazzè a Sanremo 1999, è vero che a volte una musica può alzarti dall’orlo del precipizio, in questo caso Apri tutte le porte può forse parlare a chi si sente soverchiato da un mondo allo sbando.

È stata presentata come «una canzone di speranza, un inno alla vita, un testo pieno di gioia che invita tutti noi a riprenderci da questo grigio». E tutto questo è vero, ma è anche talmente incompleto da risultare quasi falso.

Perché Apri tutte le porte è pure una canzone sulla fatica di uscire dall’assenza di speranza, sull’esistenza della tristezza e del grigio, sul fatto che vale la pena cercare di riprendersi e giocare tutte le carte, ma che questa dicotomia per essere curata non va negata.

In questi tempi in cui chi ha provato disagio di ordine mentale si è sentito spesso solo, affermare pubblicamente che una canzone parla di depressione potrebbe non essere una cattiva idea. Più in generale, potrebbe non essere una cattiva idea quella di chiamare tutte le cose con il proprio nome, invece di edulcorarle a beneficio di un pubblico immaginato sempre come meno pronto, meno preparato, meno forte, meno aperto, meno coraggioso di quello che è o che potrebbe essere.

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