Una serie incalzante di movimenti di protesta e manifestazioni di rabbia collettiva: così si potrebbero descrivere i primi due decenni del XXI secolo. Dal movimento no-global d’inizio anni Duemila a quello no-vax durante la pandemia di Covid-19, passando per l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, la vittoria del «no» al referendum sulla proposta di trattato costituzionale europeo, i roghi nelle banlieues francesi, il «Vaffanculo-Day» di Beppe Grillo, il movimento spagnolo degli Indignados, Occupy Wall Street, l’«Oxi» greco alle politiche di austerità imposte dai creditori internazionali del paese, il voto per la Brexit, l’elezione di Donald Trump, #MeToo, #BlackLivesMatter, i discorsi di Greta Thunberg, il movimento francese dei Gilets Jaunes e l’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021.

Ciascuno di questi eventi scaturisce da una storia particolare e vanta una propria specificità. Ma c’è anche un filo rosso che li attraversa, un umore di fondo che ha infuso tutti gli eventi più salienti degli ultimi vent’anni: la rabbia nei confronti delle istituzioni politiche.

Si è trattato, nella maggior parte dei casi, di esplosioni di frenesia attivistica come reazione a quella che i soggetti in questione percepivano come un’offesa al loro status sociale, cioè alla loro dignità. Queste reazioni hanno assunto la forma di azioni distruttive e, spesso, anche autolesionistiche, senza però una finalità concreta apparente. Era invece evidente la dimensione spettacolare, volta a mettere in luce una condizione di disappunto nei confronti dell’ordine sociale.

C’è stata, poi, una tendenza alla semplificazione, per cui la società si è progressivamente divisa in «amici» e «nemici», cioè «buoni» e «cattivi», senza lasciare alcuno spazio per la discussione o il compromesso tra le parti avverse. Ma, allo stesso tempo, quasi nessuno ha avuto l’intenzione di rivoluzionare l’ordine sociale. Le principali mobilitazioni politiche degli ultimi vent’anni si sono perlopiù poste l’obiettivo di ristabilire un ordine morale percepito come violato. Ebbene, tutte queste sono le caratteristiche distintive della rabbia.

Umiliazione 

Perché così tanto astio nei confronti dell’ordine costituito? Propongo qui un’interpretazione di ciò che Hegel avrebbe chiamato lo Zeitgeist, cioè lo «spirito del tempo», rifiutando però di adottare la postura altezzosa e moralizzante secondo cui le molteplici manifestazioni di rabbia dei primi due decenni del XXI secolo sarebbero solo espressioni di un’emotività irrazionale o dell’ignoranza delle masse.

È troppo facile condannare ciò che non si capisce, o si teme. E l’irrazionale non può, per definizione, essere capito. Per comprendere lo spirito del tempo è invece necessario esaminare le ragioni di ciò a cui abbiamo assistito.

La rabbia odierna deriva da un senso diffuso di mancanza di riconoscimento, cioè di umiliazione per un presunto declassamento o oltraggio al prestigio sociale di ampi strati della popolazione. Nonostante livelli di benessere materiale e di libertà individuale per molti versi senza precedenti, le società odierne non riescono a offrire un senso adeguato di dignità a varie categorie di soggetti, uniti da questo comune sentimento di umiliazione o declassamento. Per questo si arrabbiano, reclamando attenzione, prima ancora che benefici materiali o diritti giuridici.

L’eco di questo bisogno di riconoscimento è percepibile in quasi tutti gli slogan delle principali mobilitazioni collettive dei primi due decenni del XXI secolo. Essi alludono raramente a rivendicazioni di tipo materiale, ma fanno invece spesso riferimento a concetti come quelli di «valore», «grandezza» e «dignità», in un’ipotetica gerarchia universale del prestigio.

Si pensi, per esempio, all’«Uno vale uno» del Movimento 5 Stelle, all’«Allah è grande» pronunciato dai terroristi islamici e all’«America First» di Donald Trump, poi ripreso e adattato da Matteo Salvini sotto forma di «Prima gli italiani». Del resto, anche etichette come #MeToo e #BlackLivesMatter manifestano esplicitamente un bisogno di attenzione, cioè di riconoscimento, dei soggetti che le usano.

La crisi della lotta politica

Per comprendere lo spirito del nostro tempo è quindi necessario esaminare perché, nonostante livelli di benessere materiale e di libertà individuale senza precedenti, così tanta gente si sente «invisibile», cioè ignorata e sminuita dal resto della società. Questo senso diffuso di mancanza di riconoscimento deriva da una crisi profonda nella dimensione della lotta politica.

Il riconoscimento non può semplicemente essere dato da un individuo a un altro, o dalla società nel suo insieme ai propri membri. Come aveva già intuito Hegel, esso deve per forza essere ottenuto attraverso una «lotta per il riconoscimento». Presuppone, perciò, partecipazione attiva a un conflitto strutturato.

C’è quindi una dignità specifica derivante dalla partecipazione alla lotta politica, distinta dai benefici materiali che essa può comportare. Tramite questa lotta gli individui acquisiscono competenze e forme di autocoscienza che non avrebbero potuto ottenere diversamente, diventando così degni del riconoscimento da parte degli altri.

Il problema è che, nelle società odierne, le due componenti principali della «lotta per il riconoscimento» – la partecipazione attiva e il conflitto strutturato – sono in crisi da decenni. Tutti gli indicatori empirici di coinvolgimento attivo, come la partecipazione al voto, l’adesione a un partito politico, i tassi di sindacalizzazione e perfino di aggiornamento rispetto agli affari politici correnti, hanno registrato un calo costante almeno a partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso.

Allo stesso tempo, le mobilitazioni collettive hanno preso la forma di esplosioni spontanee di protesta disorganizzata, senza finalità politiche precise. Invece di dar luogo a un conflitto politico strutturato, hanno quindi contribuito alla disgregazione di tutti i principali canali di partecipazione alla lotta politica organizzata, cioè i partiti, i sindacati, le chiese, le associazioni civiche e i media.

Privati di questi canali di partecipazione, gli individui contemporanei si sentono soli e incapaci di influire sulle decisioni politiche che li riguardano. Da ciò deriva il loro senso di irrilevanza, che è alla base delle richieste di attenzione e riconoscimento.

La figura del loser

Il filosofo tedesco contemporaneo Peter Sloterdijk ha identificato nell’emergere della figura cosmico-storica del loser, cioè dello «sfigato», una delle caratteristiche distintive del nostro tempo. A differenza degli schiavi dell’antichità, dei servi della gleba medievali e dei proletari all’inizio dell’epoca industriale, gli «sfigati» odierni godono sia di un grado relativo di benessere materiale sia di diritti giuridici universali. Il loro problema non è pertanto la sopravvivenza o la libertà, ma il riconoscimento da parte degli altri. Mentre il «figo» è colui che gli altri ambiscono essere, lo «sfigato» è colui che dagli altri viene trattato con disprezzo, e perciò si sente umiliato.

In questo senso, la figura cosmico-storica dello «sfigato» è il soggetto principale della rabbia odierna. L’espressione “losers of globalization” (perdenti della globalizzazione), coniata di recente dalle scienze sociali per identificare i soggetti delle varie manifestazioni di rabbia collettiva, coglie una parte di questa intuizione. Tuttavia, l’accento è posto in genere sulla dimensione materiale degli effetti della globalizzazione, anziché sul senso di declassamento simbolico degli individui in questione. Quest’ultimo è almeno altrettanto importante del benessere materiale o della libertà individuale.

Dire che il soggetto principale della rabbia attuale è la figura cosmico-storica dello «sfigato» non è dunque un modo di minimizzare il problema. È solo un modo per indicare che abbiamo a che fare con un problema diverso rispetto alle epoche precedenti. Durante il periodo premoderno il risentimento degli oppressi prendeva la forma delle classiche «rivolte degli schiavi» o dei «servi della gleba», la cui finalità era punire, e quindi limitare, gli abusi da parte delle classi dominanti, senza però mettere in discussione la struttura gerarchica dell’ordine sociale stesso.

Sciami 

Dopo le rivoluzioni che hanno inaugurato la modernità, lo stato di diritto ha reso possibile canalizzare il conflitto sociale in una forma di lotta politica organizzata tra le classi e altri gruppi d’interesse partigiani, la cui finalità era ottenere ulteriori diritti e benefici materiali. Oggi, questi gruppi d’interesse non esistono più. Viviamo in una società composta da «sciami» disorganizzati e auto-referenziali: agglomerati di individui intenti a confrontarsi reciprocamente, ma estranei a qualsiasi forma di azione collettiva.

Per questo, nonostante i diritti acquisiti e livelli di benessere materiale storicamente senza precedenti, in molti si sentono degli «sfigati», e il loro risentimento prende la forma di ripetuti accessi di rabbia spettacolare, ma in ultima analisi sterile.


Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica (Mondadori 2024, pp. 156, euro 18) è un libro di Carlo Invernizzi-Accetti

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