L’estate rende tutti dei perdigiorno. Invece con l’inizio di settembre a ciondolare nei pressi di ponte Milvio ero rimasto soltanto io. Chiudevo gli occhi e immaginavo distese di cardi di viola laddove l’imbocco per la Cassia rendeva l’asfalto bollente simile al volto devastato di un malato di vaiolo.
L’immaginazione sostituiva la realtà da troppo tempo perché potessi trarne un qualche beneficio.
Ormai ero uno scoppiato che vacillava sopra le rovine delle sue stesse fantasticherie. L’odore acre del benessere di quella zona aveva finito per convincermi che in tutta quella faccenda il perdente fossi effettivamente io. In mezzo al viavai del ponte non mi ero accorto della tizia: ciondolava come ciondolavo io, e forse fu quella stramba somiglianza a incuriosirla.

A morte il capitalismo

«Le raccolte punti del supermercato sono lo specchio della società», mi disse.
«Cioè?»
«Tu pensi di ricevere una tazza in regalo ma te la sei pagata comprando altra roba».
Annuii. «Ci frega il culto del premio».
Scoprimmo che lei aveva perso il lavoro proprio quel giorno e io non avevo mai lavorato in vita mia. Due spiantati a ponte Milvio all’ora della movida, con gli spritz dei ragazzi e i tiramisù di Pompi delle famiglie.

«C’è stato un barlume di speranza finché sono esistite le classi sociali, proseguì».
«Ora le hanno azzerate dentro i telefonini», dissi. «Tu ce l’hai?».
«Cosa?».
«Intendo, hai un telefonino?».
Aprì la borsetta, tirò fuori uno di quegli aggeggi, lo guardò con disprezzo e lo gettò nel Tevere senza pensarci due volte.
«Fantastico!», esclamai, per sottolineare l’eroicità del gesto.
«Si fottano quelle merde della Silicon Valley».
«Il punto non è avere o non avere un mezzo di produzione, ma smettere di produrre», feci, zelante. «Che cazzo vogliono ancora produrre?».

Un riparo di fortuna

Intanto la sera su ponte Milvio si consumava sempre allo stesso modo, dopo le 22 restava qualche coppietta che andava a baciarsi davanti ai lucchetti, rimasuglio rancido di un romanticismo d’accatto, mentre le macchine che dalla Cassia tornavano in città ci bombardavano di trap e altra musica di merda.
«Non ho voglia di tornare a casa», disse lei.
«Io anche volendo non mi ricorderei dove abito», le risposi.
«È ancora estate, siamo fortunati, possiamo restarcene sul ponte».
«Vuoi dormire sul ponte?».
«E dove sennò?».
Non dissi niente, al che precisò: «Oh, non ti fare strane idee. Ci sono due panchine di ferro battuto proprio all’imbocco della torre del Valadier, possiamo prendercene una a testa».
La guardai senza entusiasmo. «Sarà il nostro Pont Neuf».

Dopodiché ci sistemammo, la tizia con la borsetta sotto la testa, io crocefisso alle stecche dure. Mi misi a pensare che la vita era come l’abbaio reiterato di un cane che sta alla porta nella vana attesa che torni il padrone. O anche di quella volta che a un ritrovo di anarchici venni cacciato per le mie idee poco conformi all’anarchia.
Non c’era speranza per i cani sciolti come me, poco ma sicuro. Di tanto in tanto buttavo un occhio alla tizia, per vedere se stesse fingendo di dormire come me o se invece fosse realmente crollata. Mi sembrò di sentirla russare, e ne ebbi invidia. Comunque all’alba eravamo tutti e due svegli a fumare, intirizziti dall’umido.

L’idea al risveglio

«Tu non sei tanto normale», mi venne da dirle.
«Neanche tu, se è per questo».
«Bisognerebbe trovare un passatempo che non ci faccia ricadere nel capitalismo».
«Ne esiste solo uno».
«E quale sarebbe? Scrivere poesie?».

Disse che avremmo dovuto chiedere l’elemosina. Lo disse con estrema solennità, come se quella fosse stata l’ultima verità disponibile sulla piazza. 
«I barboni chiedono l’elemosina, dobbiamo cadere così in basso? - osservai».
«Guarda che diventare un barbone dovrebbe essere un punto d’arrivo per chiunque in occidente abbia ancora un po’ di sale in zucca».
«Fuoriuscire dalla società è impossibile».
«Stiamocene almeno ai margini, vuoi?»

La mattina su ponte Milvio si stava animando con le figure tipologiche delle donne del mercato, anche se del mercato non c’era l’ombra. Donne con le pezzole in testa che trascinano dei carrellini variopinti di dubbio gusto.
«Hai fame?», le chiesi, capendo di stare cedendo il campo a un bieco sentimentalismo.
«No, ma ho voglia di fumare e ho finito il pacchetto».
M’infilai la mano nelle tasche, cavandone qualche centesimo e un biglietto della metropolitana usato otto mesi prima. Suppongo che fossi troppo disperato per suicidarmi.
«Dobbiamo chiedere l’elemosina?», chiesi, con un filo di voce.
«Sì».
«E come si fa?». 
«Oh, non credo sia molto difficile. Non ho mai sentito di corsi per laurearsi in “Elemosina applicata”. Si sceglie un posto, si trova qualcosa per raccogliere le offerte e si aspetta. Qualcuno più impavido tende la mano, giusto per segnalare la sua postazione più che per ricevere il malloppo direttamente sul palmo. Piuttosto si tratta di far cadere ogni maschera sociale, si tratta di abdicare dal gran Monopoli del mondo, tanto i ricchi sono i veri miserabili».
«Bisogna sconfiggere la vergogna».
«Ecco sì, e nessuno può farlo al posto tuo».

Io ero in piedi e la tizia era rimasta seduta. Questa asimmetria avrebbe dovuto rivelarmi qualcosa d’insincero, probabilmente, perché lei pontificava mentre io provavo a fare. D’altronde quando dubitiamo non dovremmo mai scordarci dello sforzo che sta facendo l’altro per crederci. Mossi il culo. Rubai una scatola di cartone dal retro di un banchetto di scarpe, trovai un cantuccio di strada all’ombra e stesi la mano.
Pensai che avevo adibito una sorta di picchetto del disonore, ma perdersi in quei giochetti di parole non mi avrebbe aiutato granché. Né ad accettare né a rinunciare. Ero sudato e intirizzito ma restai fermo immobile, a una schioppettata dallo sguardo della tizia. Se fosse stato per amore tutto avrebbe perso di credibilità, perciò dissimulavo. Nessuno se ne sarebbe dovuto accorgere.

Il cappellino da baseball

Pensai alla scena nella quale mi ero imbattuto qualche sera prima. Avevo visto un uomo parcheggiare lo scooter in tutta fretta, scendere dalla seduta, alzare il cavalletto, togliersi il casco e riporlo nel bauletto posteriore. Nonostante queste operazioni di routine, sembrava felice. Poi, furtivamente, aveva cercato con la mano qualcosa nella tasca della sua giacchetta. Era un cappellino da baseball. L’aveva tirato fuori dalla tasca e se l’era messo al naso.

Non gli era bastato. Aveva ficcato il naso dentro al cappellino, continuando ad annusare. La sera sul ponte Milvio e su tutto il resto era un mantello che nascondeva le storture. Ho continuato a sbirciare l’uomo senza capire granché. Tutto pareva confondersi, a parte quella smania di voler ritrovare un odore, di voler sapere se era sempre lì, impregnato nella stoffa del cappellino. E allora ho riempito quei buchi di senso con l’immaginazione. Mi sono immaginato un passeggero inaspettato che aveva usato quel cappellino come un casco.

Sì, l’uomo doveva essere un poeta perché teneva sottobraccio una silloge di Jacques Prévert, e una donna era andata ad ascoltarlo in libreria. Un colpo di fulmine, o forse solo una serie di coincidenze fortunate. In ogni caso gli altri se n’erano andati (se due si piacciono gli altri sono di troppo e se ne rendono conto) e loro due erano rimasti soli.

La donna gli aveva fatto una sigaretta, leccando la cartina. E l’uomo per ringraziarla l’aveva portata nel posto dove sarebbe dovuta andare dopo la presentazione. Non era successo niente, era successo tutto. Sì, ero sicuro che fosse andata proprio così.

La vittoria del capitalismo

A ogni modo, nel tempo sospeso di quel ricordo, la scatola di cartone si era riempita degli spiccioli sufficienti per comprare un pacchetto di sigarette. Arraffai il bottino e m’infilai spedito nel tabaccaio.
«Fuma», le dissi, vanaglorioso.
«Ti piace fare il barbone, eh?».
«Mi prendi in giro?»
«No è che mi sono stufata», disse lei, schiacciando la sigaretta sotto il tacco, dopo che ebbe tratto l’ultimo, intenso tiro. «Me ne vado a casa».

Impallidii. «Ma come? E il cellulare che hai buttato nel fiume?».
«Era quello aziendale. Non mi hanno licenziata, me ne sono andata».
«E il capitalismo come male assoluto?»
«Sono figlia di un mecenate dell’acciaio».
«E la storia sui barboni come unici eroi della contemporaneità?».
«Devo farmi almeno una doccia al giorno, non potrei mai».
«Mi hai ingannato», le dissi. «Invece di darti retta avrei dovuto cominciare a scrivere poesie».

La tizia a quel punto se n’era già andata, riportandomi al punto di partenza. A parte che mancava un giorno in meno alla fine dell’estate. E che avevo imparato a infischiarmene dell’orgoglio. Provai a scrivere una poesia, soltanto una. La dedicai alla tizia, naturalmente, ma non mi venne granché bene. Sono libero / libero dalla rima / e da te. Molto meglio fare il barbone, anzi essere un barbone.

© Riproduzione riservata