Al Pacino prima di diventare l’allenatore Tony D'Amato in Any Given Sunday di Oliver Stone, quando era Michael Corleone, in The Godfather-Part II, diceva: «Se la storia c’ha insegnato qualcosa è che si può uccidere chiunque».

Ecco, se il calcio c’ha insegnato qualcosa è che dall’ottantesimo in poi al Santiago Bernabéu si gioca una partita nella partita, e che poi la vince il Real Madrid. Tanto che negli anni questa “zona Madrid” si è andata ad aggiungere al teorema di Gary Lineker: «Il calcio è un gioco semplice: ventidue uomini rincorrono un pallone per novanta minuti, e alla fine la Germania vince».

Mercoledì sera il Bayern Monaco, giocando contro il Real Madrid, ha ignorato l’enunciato, la “zona Madrid”, e in parte confutato il teorema sul calcio tedesco, che nasce per la Fußballnationalmannschaft, ma essendo il Bayern Monaco la massima espressione diciamo che un po’ è coinvolto.

«Ahora pierde»

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Ma soprattutto c’è da chiedersi: possibile che nel calcio degli algoritmi, dello studio maniacale di ogni aspetto, al Bayern poi, dove calcolano tutto, Thomas Tuchel abbia commesso un errore già commesso da tanti altri e peggio ancora abbia fatto una scelta da vecchio calcio italiano che in passato aveva già punito uno come Max Allegri – ma la lista è lunga – al punto di farsi rimontare e perdere? Sì, è successo, di nuovo. E i madridisti veri come Raúl hanno segnalato la cosa oscillando tra un sismografo e un Nostradamus breriano, con due parole: «Ahora pierde».

Che cosa è accaduto: semifinale di ritorno di Champions League, Real Madrid contro Bayern Monaco, dopo un primo tempo finito sullo zero a zero, risultato salvato dal portiere tedesco Manuel Neuer con due parate da mostrare ai nipoti; nel secondo tempo, al sessantottesimo, il calciatore meno atteso dalla parte tedesca, Alphonso Boyle Davies, lanciato da Harry Kane in versione Toni Kroos, corre velocissimo verso l’aria di rigore madridista, si accentra e si inventa un destro che per tutta la partita non è riuscito al più bravo Vinícius Júnior, e segna il gol per il Bayern.

Ancelotti, invecchiato dopo il gol più di Tony Soprano quando scopre che uno dei suoi è una spia dell’FBI, manda in campo Modric, Camavinga, e dieci minuti dopo Brahim Diaz e Joselu all’ottantunesimo. Un minuto dopo l’inizio della “zona Madrid”. Quindi un altro Real. Mentre Tuchel ignorava la storia, Michael Corleone, gli errori registrati persino da Harry Potter e spiegati ai giovani calciatori di ogni parte del mondo: aveva destrutturato il suo Bayern Monaco, per la felicità di Jacques Derrida, tirando via dal campo prima Sané, poi Musiala e infine – zànzà – Kane, dando per scontato di avere la finale in pugno, e dimenticando i precedenti, scavalcando a destra Giovanni Trapattoni e pure Josè Mourinho e assestandosi dalle parti di John Wayne sotto al portico nel finale di Sentieri selvaggi, mentre Raúl cominciava a militare all’estrema sinistra di ogni avanguardia d’arte insieme a Carlo Ancelotti e a pochi altri visionari ne intuivano la disfatta.

Prudenza ultra-borghese

Il Real aveva rallentato, dopo aver a lungo meritato il gol, e invece Tuchel gli regalava una strategia di prudenza ultra-borghese: trenta metri di arretramento, nessun uomo capace di dribblare e attaccare e la possibilità di far sguazzare il vecchio Modric in spazi d’invenzione, aumentando il rischio di una palla in area. E mandando un telegramma all’anima più profonda della squadra: se prendiamo gol perdiamo, perché i supplementari diventano una stanza di tortura calcistica.

Tutto questo conoscendo i precedenti, e in uno stadio che è sempre stato asfissiante per gli ospiti, divenuto un palazzetto, col tetto chiuso, le luci decise da una regia, e l’alito di tutta Madrid sul collo dei tedeschi. Un teatro anatomico in 4K, dove quello che Jorge Valdano chiamò «miedo escenico», borseggiando Gabriel García Márquez, colpisce alla bocca dello stomaco la squadra avversaria, che alla fine crolla.

Romanzo calcistico

Tra l’ottantottesimo e il novantunesimo segna due gol Joselu, un calciatore che due anni fa era allo stadio a guardare la finale di Champions League come tifoso del Real Madrid e in tre minuti gliene disegna una come attaccante che segna in-vece di Vinícius Júnior e Bellingham.

Quindi al teatro anatomico si aggiunge il romanzo calcistico, arrivato a Madrid per sostituire Benzema e per il mancato desiderio ancelottiano di avere proprio Harry Kane, il vecchio Joselu, trentaquattro anni a marzo, nato in Germania, regala un colpo di scena attraverso una doppietta al finale della partita che relega il Bayern nei peggiori incubi di David Lynch. Insomma, ultimo viene santo Joselu, dopo una saga che va da Benzema a Sergio Ramos, da Santillana a Valdano e via così, tatuaggi di dolore sulla pelle delle squadre che accarezzavano l’impresa della vittoria contro il Real Madrid, al Bernabéu o anche fuori.

Va così più o meno dall’84-85, con gli iugoslavi dell’HNK Rijeka, almeno è da loro che parte l’analisi del dottor Jorge Valdano. E il resto non conta, viene cancellato. Tutto. Meno Tuchel e le sue scelte. Perché lo fa? Sa tutto, sa quello che accade, è un allenatore esperto, ha vinto la Champions e sa come il Real Madrid spinge – tra l’altro cominciando a usare la fascia destra con intensità quasi come una condizione estrema, il gioco passa per larga parte della partita dalla sinistra – ma Tuchel invece di giocare e continuare ad attaccare tenendo i suoi uomini migliori in campo, scava la trincea e ci cade dentro. Ripete una strategia compiuta da altri e già sconfitta, già fallimentare, ma lo fa comunque.

Paura real

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C’è una sola risposta razionale: per paura. Davanti al pericolo c’è chi si batte e chi fugge. Nessun giudizio, ma una scelta di carattere. C’è chi sceglie la prudenza e chi no. Chi si ritira e chi no. E c’è chi perde e chi no. In una partita del genere ci sono tante paure: c’è lo stadio, un luogo unico che già faceva paura prima, figurarsi adesso che agisce come un set, con un regista e una colonna sonora che dopo l’ottantesimo ricorda quella de Lo squalo di Steven Spielberg e che mangia Tuchel, il Bayern e anche l’arbitro e il guardalinee che fischiano un fuorigioco quantomeno dubbio e da rivedere, contagiati dalla paura.

Una catena di eventi che si allacciano e diventano gol del Real e poi la sua ennesima vittoria. Il calcio è infanzia per quante costruzioni tattiche ci possano essere, e l’infanzia è il luogo delle paure. C’è la paura del ridicolo che richiede la conoscenza dell’essere ridicoli – che si ha solo quando la si prova – e nello sport è un attimo, e infatti Neuer da eroe della partita passa a vittima, respingendo e non trattenendo un forte tiro di Vinícius Júnior che porta al pareggio di Joselu.

Poi c’è la paura delle conseguenze, quella che attanaglia Tuchel, se non si difende e la sperpera andando contro sé stesso, contro il suo essere un uomo d’ordine, paura che lo porta a difendersi e destrutturarsi, ripiegando e perdendo. Questo tipo di paura nel calcio ne genera tante altre, e spesso porta alla sconfitta. È così che la perdi. Ed è così che l’ha persa. Era tutto in campo, tutto già visto e tutto apparecchiato, ma non c’era la psicanalisi ad aiutare Tuchel e le sue paure profonde che l’hanno portato ad essere prudentissimo come un vecchio allenatore italiano che si sente sempre debole (ma dietro quella debolezza e quella strategia tattica c’era la guerra e il paese che si portava nelle ossa e nell’animo la paura, almeno così la spiegava Gianni Brera).

La Germania e il Bayern Monaco e Tuchel non possono avere quelle paure, ma possono esserne vittima per dei giri assurdi dell’inconscio. Ma c’è una paura che Tuchel non ha: il terrore di essere solo. E questo lo salverà per le sue prossime panchine. Perché la paura è una grande scuola, in campo e fuori.

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