I libri di ricette che non ti aspetti sono quelli degli hippy, i figli dei fiori e della controcultura giovanile degli anni Sessanta e Settanta.

L’iconografia degli hippy è talmente nota da sfiorare lo stereotipo: i ragazzi con i capelli lunghi e le barbe folte, le ragazze bionde con i fiori in testa, tutti accampati nelle grotte o sui prati, falò sulla spiaggia, tutti nudi, sesso libero e chitarra.

Per quanto riguarda quello che ingerivano, l’immagine tradizionale ci ha tramandato Lsd e qualche altro allucinogeno, niente di relativo alla cucina. Eppure, gli hippy avevano una loro cultura del cibo, anche molto interessante.

I libri

Tra i loro libri di ricette, il grande classico è The hippie cookbook: Don’t eat your food stamps (Il libro di ricette hippy: Non mangiare i tuoi buoni pasto), di Gordon e Phyllis Grabe (richiestissimo ancora oggi su Amazon); poi c’era The Joy of Cooking, dicono il più amato nelle comuni californiane; The Commune Cookbook (Il ricettario della comune) di Crescent Dragonwagon; e ancora The Tribal Cookbook.

Letti oggi, possiamo dire che tutti relativizzano una delle poche cose che sembrava certa sugli hippy e il cibo, cioè che fossero vegetariani. Nelle ricette c’è infatti sì una grande prevalenza di verdure, ma qua e là saltano fuori piatti come “Torta di carote e coniglio”, “Hamburger psichedelico” (con carne, pane bagnato, uova sbattute e tre teste di aglio tritate) che promette una felice digestione, e altre pietanze a base di manzo o maiale. In effetti alcuni storici hanno avanzato dubbi sul sincero vegetarianesimo degli hippy, sostenendo che era stato una necessità economica: le verdure costavano meno della carne e di soldi nelle comuni non ne giravano tanti.

Nudismo e comunità

Vegetarianesimo a parte, da questi libri emerge che la cucina degli hippy era totalmente in linea con i valori e gli ideali del movimento. Prima di tutto il nudismo. Cucinare nudi è quasi un obbligo, perché regala al cuoco una grande vicinanza con la natura. Nell’introduzione a una ricetta da preparare rigidamente senza vestiti indosso si legge: «Contrariamente a quanto creda la pubblica opinione, cucinare nudi fa bene al tuo corpo e al tuo cibo. Ricorda, il tuo corpo ha bisogno del tuo cibo, il tuo cibo ha bisogno del tuo corpo».

C’erano ovviamente anche delle limitazioni. Qualcuno assicura che la celebre (negli Stati Uniti) frase «Mai cucinare il bacon nudi» sia apparsa per la prima volta proprio in questi libri, e voleva avvisare i potenziali cuochi delle fastidiose conseguenze che friggere pancetta o patatine nudi poteva comportare.

Poi c’era l’esaltazione della comunità. Cucinare era inteso come una pratica liberatoria e collettiva che permetteva di andare ben oltre il preparare cibo. Anche i nomi dei piatti, spesso, alludevano alla condivisione. “Spirito di fratellanza in brodo di carne” è certamente uno dei piatti più comunitari. Prepararlo non era semplice, le istruzioni cominciavano così: «Raggruppatevi tutti insieme e assaporate i sentimenti belli. Lavorate su ogni cosa che è ancora inespressa. Dopodiché, riempite due pentole d’acqua...» e continuava quasi come una normale ricetta. Cucinare era una delle cose che quei giovani facevano spesso in gruppo e in modo totalmente diverso da come voleva la tradizione. Un’altra era il sesso, e ancora una volta, cibo e sesso sembrano accomunati da un legame profondo.

Spiritualità multiculturale

La politica era una costante del movimento e i libri di ricette non ne erano certo estranei. Invece del classico «prendete il tal cibo dalla credenza», si scriveva «liberate il cibo dalla dispensa». C’erano accenni alla spiritualità, «aggiungete il sacro miele...»; o una ricetta del “Tè dell’èra dell’Acquario”, che era definito rilassante e calmante; o ancora il tè alla menta, eccitante ma da mescolare alle erbe mediche. Il riso nero era il simbolo della lotta contro la cucina borghese. Il “Peace pancake” era un normale pancake con un’unica differenza, l’aggiunta di germe di grano. La “salsa sorprendente” francamente non si capisce cosa avesse di inaspettato. Ogni tanto arrivavano i “Consigli hippy”, alcuni dagli esiti dubbi: «Se bruci quello che hai cucinato, aggiungi burro».

In pieno spirito multiculturale, si mettevano insieme varie tradizioni, fino a dar vita alla Bologna knish enchilada. L’aglio e le zucchine finivano nel pancake, e tanti altri esperimenti ribaltavano la cultura borghese dando vita a piatti davvero estremi. Ma a volte, senza saperlo, si rifaceva la tradizione di posti lontani. Nella California dei trip e delle comuni qualcuno scrisse la ricetta di un’insalata con arancia e cipolla, non sapendo che da secoli era un piatto popolarissimo in Sicilia. Insomma, si sperimentava con una punta di ingenuità e con risultati anche scombinati. Non per niente, la dedica finale dell’Hippie Cookbook è a Peaches: «Un elefante di 4 tonnellate dello zoo di San Diego che fino ad ora ha mangiato: un paio di occhiali, due maglioni e un impermeabile ed è ancora lì che si diverte». Come dire: se è sopravvissuto lui...

Cambiamenti importanti

Le ricette hippy però sono una cosa seria, dice lo storico del cibo Warren Belasco. In un periodo di ideologie molto forti, non a caso si sviluppavano attraverso opposizioni: nero (integrale) vs. bianco, verdure vs animali, etnico vs wasp, leggero vs. pesante. I valori erano quelli degli hippy, ma applicati al cibo: attivarsi assecondando i bisogni del pianeta; il rifiuto della tecnologia; la mitizzazione della natura e della comunità; l’amore per gli animali; la passione per le piccole produzioni.

Le stranezze di quei piatti, scrive ancora Belasco, con combinazioni di ingredienti spesso ardite, furono prima irrise dall’industria, ma in seguito portarono alle grandi innovazioni degli anni Ottanta, dalla nouvelle cuisine in poi. Molti dei nuovo chef di quegli anni, infatti, venivano proprio dalle comuni in cui si erano scritti quei libri e mangiati quei piatti.

Ed è grazie a quegli esperimenti estremi, conclude Belasco, che oggi yogurt, tofu, latte magro, tè alle erbe, granola, riso nero e cereali biologici si vendono al supermercato e ai benpensanti; è per merito della controcultura che il cibo “naturale”, qualsiasi cosa significhi, è il preferito dal grande pubblico, anche quello che con gli hippy non ha nulla a che fare o che magari non li sopportava quando era giovane. In fondo, potremmo dire, è vero che gli hippy non cambiarono il mondo, ma sicuramente cambiarono il cibo, che del mondo è una parte importante.

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