In entrambi gli inni Dio c’è: God defend New Zealand, in maori e in inglese; Nkosi Sikelel’ iAfrika, Dio protegga l’Africa, in xhosa, zulu, lesotho, afrikaans e inglese. Rimane da capire da che parte Dio starà domani sera, a Saint-Denis, Stade de France, quando le due vecchie nemiche si scontreranno per qualcosa che è più della finale della Coppa del Mondo di rugby.

Sospeso tra lo storico e il leggendario, nel 200esimo anniversario della nascita di questo strambo e magnifico gioco, in ballo c’è la chance di poter affermare una superiorità, un dominio: tre volte campioni del mondo gli All Blacks, tre volte campioni del mondo gli Springboks.

Per entrambi il rugby è stato un dono inglese: i neozelandesi lo hanno trasformato in costume nazionale per perfezionarlo, raffinarlo, pescando anche tra le attitudini dei primi abitanti e degli isolani degli arcipelaghi del Pacifico; i sudafricani, specie quelli di radice boera e francese, ne hanno fatto il simbolo di una terra dove non si è mai guardato per il sottile.

Quando i sudafricani sono arrivati in fondo, hanno sempre vinto; i neozelandesi no, una sconfitta, nel 1995, a Johannesburg, proprio contro gli Springboks che Nelson Mandela volle simbolo di una difficile riconciliazione dopo troppi di abusi, di violenze, di apartheid.

E così, tra poco, quel che hanno raccontato la storia e Clint Eastwood in Invictus si ripeterà e non è il momento né il caso di dar retta ai bookmakers: le quote possono esser cancellate dalla convinzione, dalla forza, dall’aggressività, dallo spirito, un repertorio che è nelle corde degli uni e degli altri.

Carissime nemiche

La Nuova Zelanda e il Sudafrica appartengono a quella categoria di rivali che non possono fare a meno l’una dell’altra, carissime nemiche che hanno attraversato un secolo abbondante di scontri (62-39 per i Neri) e che hanno dato vita a movimenti tellurici che hanno scosso il mondo, non solo quello del rugby.

È stato per via di rapporti ovali mai interrotti nelle lunghe stagioni in cui il Sudafrica era stato messo al bando (per arrivare laggiù esisteva solo un volo da Lisbona che non sorvolava nessun paese africano) che nacque il boicottaggio che privò le Olimpiadi di Montreal ’76 dei paesi del grande continente che corre dal Maghreb al Capo, dal Mediterraneo all’Oceano Indiano.

E qualche anno dopo, quando Mandela era ancora il prigioniero 46664 nel carcere di Robben Island, un gruppo di All Blacks mascherati sotto il nome di Cavaliers, andò in Sudafrica. Nel frattempo, un tour degli Springboks nelle due isole alla fine del mondo si era trasformato in teatro per spettacolari contestazioni: un bombardamento con sacchi di farina rimane l’episodio più clamoroso.

Era il tempo in cui passare per Trafalgar Square significava imbattersi nel presidio permanente degli attivisti davanti alla South Africa House, a fianco della chiesa di St Martin in the Fields.

Mandela

Quando nel 1987 nacque la Coppa del Mondo, intitolata a William Webb Ellis, l’abate che riposa nel cimitero vecchio di Mentone, il Sudafrica non venne invitato e lo stesso avvenne quattro anni dopo, nel ’95, dopo le elezioni che portarono alla presidenza il Madiba, Gandhi del nostro tempo, il miracolo di Johannesburg, il giorno di Mandela sceso in campo con la maglia numero 6, quella di Francois Pienaar, il capitano della squadra che riuscì a fermare il titano Jonah Lomu, a vincere con un drop, un calcio di rimbalzo, ideato da Joel Stransky.

Gli Springboks erano il simbolo della supremazia bianca. Mandela riuscì a farli amare da tutti. In quella squadra c’era un solo giocatore con la pelle nera, Chester Williams, ora sono 14, compreso il capitano Siya Kolisi. E non per imposizione governativa sulle quote nere: se sono lì è perché l’hanno meritato.

Il Sudafrica ha rivinto il Mondale nel 2007, proprio allo Stade de France, battendo l’Inghilterra, piegata dopo intensa battaglia qualche giorno fa in semifinale, e rispettando l’intervallo dei dodici anni tra una vittoria e l’altra, ha trionfato per la terza volta nel 2019 a Yokohama, ancora contro quelli con la maglia bianca e la Rosa carminio dei Lancaster.

Dal successo in patria dell’87, gli All Blacks sono stati costretti ad attendere quasi un quarto di secolo per fare il bis, ancora in casa e con un punteggio striminzito, sulla Francia. Nel 2015 finalmente una vittoria nell’emisfero nord, a Twickenham, nel derby degli antipodi con l’Australia.

Si sono scambiati duri colpi, vecchi e nuovi: se per due volte i Blacks hanno sottoposto i Boks a umilianti sconfitte scandite da 57 punti al passivo, i sudafricani hanno consumato una fresca vendetta: nell’ultima partita di “riscaldamento”, 35-7. Mai i Neri erano stati sconfitti così pesantemente. Ma in questo mese la loro crescita è stata prodigiosa, come quella delle enormi felci che popolano le loro umide foreste.

Il Mourinho del rugby

Arrivano al faccia a faccia con i loro stili: la sublime tecnica dei neozelandesi (che per la prima volta nella storia dello sport presentano tre fratelli: Beauden, Jordie e Scott Barrett), capaci di proporre cavalcate profonde e letali; l’aggressività e la potenza dei sudafricani nei punti d’incontro che è meglio definire di scontro: Eben Etzebeth è alto 2,03, Gherardus Snyman 2,06 e il peso per entrambi gravita sui 120.

Diversi anche i due strateghi: Ian Foster, 58 anni, neozelandese di Hamilton, ha l’aspetto pacioso di un gestore di pub, ma è solo una fugace impressione; Johan Erasmus, per tutti Rassie, 52 anni, di Port Elizabeth, è un personaggio a “n” dimensioni: è il genio della lampada (un mezzo per segnalare i suoi ordini), è un tipo baciato dalla fortuna – dicono i denigratori – e tutto gli va sempre per il verso giusto (un punto sulla Francia, un punto sull’Inghilterra), è il Mourinho del rugby, è il nuovo Labbro, come Alì, è un provocatore, è un manipolatore via social, è un conoscitore così profondo delle regole da trovare la soluzione giusta ai problemi (la girandola delle sostituzioni con la Francia ha basketizzato il rugby), è un sublime attore in conferenze stampa in cui snocciola dati come un calcolatore e annuncia la formazione… degli avversari, è un comandante che ha continuato a tenere il bastone da feldmaresciallo anche quando era stato allontanato dopo il suo lungo j’accuse contro l’arbitro Nik Berry, è il diretto superiore di chi (Jacques Nienaber) ha la carica di commissario tecnico, e gli siede accanto, accigliandosi, dando tutte le disposizioni che gli frullano in testa.

E di solito gliene frullano parecchie. AIan o a Rassie toccherà in sorte il ricordo e la riconoscenza di un popolo.

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