Nel primo film di Yorgos Lanthimos, Kinetta, tre personaggi tanto disturbati quanto malinconici coltivano un hobby parecchio inquietante: ricostruiscono le scene di alcuni omicidi per poi rimetterne in scena la dinamica; così che, nella moviola scrupolosa dell’assassinio, ne emergano anche le cause interne, i motivi più profondi, che nel processo giudiziario sono inevitabilmente andati perduti. Sangue italiano di Roberto Casalini (Neri Pozza) è un esercizio di questo tipo; una cronologia che, invece di rallentare, accelera, e invece della moviola ci offre un time-lapse: un nero catalogo delle più eclatanti morti violente in Italia dal 1860 ad oggi.

La storia di un paese si può fare in molti modi: a partire dalla sua economia, dalla sua letteratura, dalla sua politica, dai suoi costumi; persino dalla storia dei suoi oggetti e dei suoi piatti tipici. Ma una biografia nazionale la si può tracciare anche, come ha fatto Casalini, dal punto di vista dei suoi delitti. E forse non è il meno interessante dei punti di vista.

Questo di fare la storia d’Italia dal punto di vista dei morti ammazzati non è un esercizio da voyeurs, da rallentatori accanto a un disastro stradale (tanto più se il disastro è, in fondo, anche il nostro): il nuovo successo del true-crime, che ha tolto la cronaca nera dai bassifondi delle passioni inconfessabili e l’ha elevata a esercizio di investigazione intellettuale sul Male, ha ormai conferito una piena dignità filosofica ai crimini di sangue. Come Stefano Nazzi, che col suo Indagini ha saputo inquadrare il delitto all’interno della sua eco mediatica e giudiziaria, “salvandolo” così – più o meno in buonafede – dalla dimensione del pulp, Roberto Casalini racconta più di cento delitti, uno più efferato dell’altro, con lo scopo di rintracciare in essi un «carattere nazionale».

I tratti comuni

Esiste un «omicidio all’italiana»? A scorrere il libro, sembrerebbe di sì, visto che – nel variamente assortito catalogo dei “luoghi del delitto” – un posto di prim’ordine lo riserva la famiglia. Sede di affetti ma anche di rancori tenaci, dove spesso si giustificano i fatti di sangue, la Famiglia è il luogo del delitto perfetto: non solo quello dove si uccide di più, ma anche quello dove l’omertà è più diffusa e impenetrabile. È abbastanza incredibile che, fra i tantissimi casi di cronaca enumerati da Casalini, solo in due – il delitto Murri e quello Nigrisoli – la denuncia dell’assassino è venuta dai congiunti. Nella maggior parte degli altri – dal caso della morte di Marco Vannini in casa della famiglia Ciontoli fino al caso di Elisa Claps (dove non solo il nucleo familiare ma anche alcuni importanti esponenti di spicco della comunità potentina si sono chiusi a riccio a protezione dei Restivo) – la Famiglia si contrae, si chiude a riccio, come a difendersi da uno Stato che incarna valori più astratti e distanti di quelli “interni”. Fra il dentro e il fuori della casa corre un muro simbolico e psichico molto più invalicabile di qualsiasi muro reale.

Valga come esempio uno dei crimini più traumatici nel sentire collettivo recente, quello di Willy Monteiro Duarte, brutalmente assassinato a Colleferro nel settembre 2020, che qui viene raccontato proprio a partire dalle reazioni dei familiari dei suoi assassini: «L’hanno messo in prima pagina manco se fosse morta la regina!», commenta Simonetta di Tullio, madre di Gabriele e Marco Bianchi. In caserma, poco dopo l’arresto, uno dei parenti domanda: «In fin dei conti che cos’hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario». Familismo amorale, lo definì nel 1958 il sociologo americano Edward Banfield: la famiglia è un recinto sacro, i cui vincoli sono superiori non solo a quelli dello Stato e della comunità ma anche a quelli della morale.

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Fino a quando anche quel recinto sacro implode e collassa. E allora vediamo gli omicidi interni alla famiglia, massacri domestici che esplodono come il punto finale di lunghe, silenziose cancrene: Roberto Succo nel 1981; Ferdinando Carretta nel 1989; Pietro Masi nel 1991; Erika De Nardo e Omar Favaro nel 2001; Annamaria Franzoni nel 2002; Benno Neumair nel 2021; fino al terribile omicidio familiare di Paderno Dugnano di pochi mesi fa. Motivazioni labili, dai confini incerti – il denaro, “la roba”, l’autonomia, il fastidio per i rimproveri, il desiderio di farsi ascoltare, i litigi – che vanno a copertura di un epicentro nero, un nodo gordiano di contraddizioni, un pozzo avvelenato spesso non per poco ma per troppo amore: la Famiglia Italiana come un luogo che si carica di troppa temperatura simbolica per non rischiare, talvolta, l’esplosione.

I femminicidi

Allo stesso tema appartengono i numerosissimi femminicidi: una quantità angosciante di donne massacrate perlopiù – manco a dirlo – da mariti, amanti e spasimanti; e già mi rendo conto che l’uso di questi termini così retorici – «amanti, spasimanti» – si porta automaticamente dietro i codici ambigui del corteggiamento e della «conquista», gli stilemi medievali della sfida e del possesso. Forse anche qui, in questi cifrari apparentemente innocui della galanteria si annida qualcosa di molto italiano: la bonarietà verso tutto ciò che è sentimentale, la convinzione che tutto ciò che implica un trasporto sia sempre un bene lì dove invece è sempre un rischio; insomma la sopravvalutazione (che poi diventa, nel suo rovescio, sottovalutazione) del piano emotivo. Molte, troppe donne sono morte uccise da persone che hanno rivolto loro parole d’amore. 

Eros e sangue sono intricati, e senza nessuna eco di romanticheria leopardiana. Si veda il caso di Maria Goretti, dove una povera bambina analfabeta di undici anni viene sublimata in icona di redenzione nazionale, con il suo assassino che diventa il più devoto cultore della memoria della sua stessa vittima. La religione diventa un dispositivo di cancellazione di qualcosa di oscuro e intollerabile, che forse non abbiamo voglia di guardare a occhio nudo. Quelle delle donne uccise è il cimitero segreto d’Italia. Giulia Cecchettin è solo l’ultimo nome di una lista terribilmente lunga, drammaticamente poco nota, di cui spesso continuiamo a sottovalutare i meccanismi.

E certo qualcosa di perturbante emerge, se ai delitti privati si sovrappongono quelli «pubblici» – se non addirittura statali – in un paese che, agli albori della sua unificazione nel 1860, aveva a Napoli come capo della polizia il più importante camorrista della zona, Salvatore De Crescenzo detto Tore; se nel 1898 fu il governo stesso a ordinare al generale Bava Beccaris di sparare coi cannoni sulla folla che a Milano protestava per l’aumento del prezzo del pane, causando ottantatré morti; se, tra il 1987 e il 1994 in Emilia Romagna la più sanguinosa e spietata gang criminale – la banda della Uno Bianca – era composta da poliziotti.

Fanno impressione, a vederli in fila, i delitti compiuti oppure occultati da esponenti delle forze dell’ordine: una lunga catena di crimini ufficiali e ufficiosi che arriva fino alla morte di Carlo Giuliani, agli orrori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto durante il G8 a Genova nel 2001, all’uccisione di Stefano Cucchi a Roma nel 2009.

Delitti di famiglia, delitti passionali, delitti di mafia, delitti di stato: il carattere italiano, se c’è, si trova nell’intersezione invisibile di queste linee, all’interno di una strana sovrapposizione di stati. Un’ambiguità che però, nel delitto, per un attimo diventa trasparente, e mostra qualcosa di più nascosto. Qualcosa di segreto e di infetto, che sta nel profondo del nostro carattere nazionale.

Un paese che si considera (e si vende) come sorridente e bonario, capace di una straordinaria autoindulgenza nei confronti dei propri moltissimi cimiteri – pieno di un’allegria che ha talvolta qualcosa di osceno.


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