Le mestruazioni arrivano nelle serie tv e si riappropriano, in mainstream, di una narrazione più reale: il sangue non più come simbolo di vergogna ma come un evento che accompagna la vita della maggior parte delle donne o altre soggettività con un apparato riproduttivo femminile e che ogni mese, per circa 40 anni della loro vita, hanno il ciclo e con questo ci convivono, fanno sport, lavorano, studiano, escono, fanno sesso. Le mestruazioni arrivano sullo schermo e in pochi minuti si scrollano di dosso l’idea stessa di simbolo e diventano, semplicemente, vita quotidiana.

Nell’ultima settimana ho assistito alla loro sorprendente rivincita in due produzioni Netflix, l’ultima stagione di Sex Education e il film Fair Play di Chloe Domont, che hanno osato sfidare il più grande tabù culturale legato alle mestruazioni: il sesso, perché ancora oggi l’idea è che se hai il ciclo non puoi farlo.

Rappresentazione di un pensiero più generale che lega le mestruazioni alla vergogna – non si mostrano e non se ne parla – e che negli ultimi anni sta cambiando grazie al contributo di attiviste, campagne di comunicazione più inclusive e di artiste che con le loro opere hanno cambiato la narrazione, come la poetessa indiana Rupi Kaur, che nel 2015 realizza il progetto fotografico Period – termine inglese che viene usato per definire le mestruazioni – che viene censurato da Instagram.

Il motivo: aver oltraggiato il pudore mostrando una donna con i pantaloni macchiati di sangue in mezzo alle gambe. Subito il pensiero torna al tempo della scuola, quando con la sensazione di avere esondato l’assorbente ci si alzava dalla sedia per andare in bagno, sperando di non esibire in mondovisione (il mondo era la classe) una macchia di sangue sui jeans. Venticinque anni dopo, mi chiedo: perché la società mi faceva sentire sporca, come se dovessi nascondermi e vergognarmi?  E perché lo fa ancora oggi, sui social? 

Sesso e mestruazioni

Nell’ultima stagione di Sex Education, la serie tv più inclusiva degli ultimi anni, compare il sangue mestruale durante una scena di intimità tra Cal, personaggio non binario già presente nelle stagioni passate, e un’altra persona, che si accorge del ciclo e dice che «non è un problema».

La telecamera inquadra una mano sporca di sangue. Per molto tempo ci hanno raccontato che quella era la situazione più umiliante che si potesse vivere: il partner (in questo caso, occasionale: allerta massima di vergogna) che si sporca di sangue perché tu non ti sei accorta di avere il ciclo.
Inoltre, attraverso un personaggio non binario si decostruisce un altro tabù: avere il ciclo mestruale non significa necessariamente essere donna, come, del resto, non tutte le donne lo hanno. In 24 secondi di cinema per adolescenti si sfatano queste narrazione negative e irreali. Viene da dire solo una cosa: era ora.

In fase di rielaborazione di questa immagine potentissima, inizio a guardare Fair Play di Chloe Domont, con protagonista Phoebe Dynevor, resa famosa dal ruolo della duchessa in Bridgerton. Nonostante le buone intenzioni, il film (che è il più visto di Netflix) è piuttosto brutto e confuso, ma ha però un merito: mostrare una coppia etero che fa sesso durante le mestruazioni, senza che questo sia considerato un problema e, anzi, con il partner che dice una frase del tipo «fregatene di sporcare, lavo io le lenzuola» (spoiler: se questo ve lo renderà simpatico, cambierete idea). Vergogna e tabù spazzati via in altri 24 secondi.

Il ruolo dell’arte femminista 

Una riflessione sul ruolo delle mestruazioni nell’arte arriva dal video Ginnastica culturale che in poco più di quattro minuti racconta come, fin dagli anni Sessanta, il sangue mestruale diventa protagonista delle opere di alcune artiste internazionali: dall’austriaca Vale Export che produce MenstruationsFilm, riprendendosi seduta su uno sgabello dal quale cola urina e sangue, fino a Judy Chicago, che nel 1971 – gli anni delle battaglie femministe – realizza RedFlag, opera che raffigura una donna nell’atto di togliersi un assorbente interno, e che l’anno successivo, insieme a Miriam Schapiro, è autrice di Womanhouse, un display femminista dove in una installazione di diciassette stanze si mettono in discussione i ruoli di cura, in particolare domestici, imposti dalla società patriarcale.

Successivamente, il movimento diventa più importante, con artiste che decidono di dipingere utilizzando il proprio sangue mestruale, come Tamara Wyndham, che lo fa direttamente dalla vulva o Tracy Emin, che realizza l’iconica installazione My Bed, ospitata nel 1999 dalla Tate Britain (dove si trova oggi), candidata al Turner Prize e battuta all’asta per 3,5 milioni di euro.

L’opera racconta il caos di oggetti ritrovato dall’artista dopo quattro giorni trascorsi a letto, in uno stato di semi incoscienza, a seguito della fine di una relazione: bottiglie di vodka, pillola anticoncezionale, preservativi, fazzoletti usati, biancheria intima sporca.

Anni dopo, nel 2016, Paola Daniele porta a Parigi l’esposizione/performance Hic est sanguis meus – Il sangue delle donne, dove racconta, senza filtri, la vita quotidiana durante le mestruazioni, poiché – spiega – «siamo tutti nati da un ventre insanguinato». Perché allora averne paura o additarlo come vergognoso e impuro? 

Perché il mestruo fa paura?

Siamo stati abituati a pensare che la donna che perde sangue sia simbolo di morte e non di vita, perché le mestruazioni sono spesso utilizzate per raccontare una gravidanza mancata: il sangue che cola, inesorabile, e che segna il fallimento di un (altro) tentativo di diventare madre. Lo narra in maniera perfetta Antonella Lattanzi in Cose che non si raccontano (Einaudi 2023), dove tra quelle “cose” c’è anche il sangue.

Le mestruazioni diventano il segnale inequivocabile di un fallimento intimo, personale ma spesso anche sociale perché il ruolo di madre è l’unico che il sistema patriarcale riconosce alla donna. Non per tutte è così, ce ne sono altrettante che provano sollievo all’idea di non essere incinte ma difficilmente finiscono in una narrazione collettiva.

Le mestruazioni non sono mai state accettate culturalmente e da secoli sono motivo di discriminazione di genere: nel Levitico si afferma lo status di contaminazione e impurità della donna durante le mestruazioni, tanto che viene detto di non toccarla e di non condividere il letto con lei. Se avete visto la serie tv Unorthodox, con Shira Haas nei panni della protagonista, Esty, vi siete fatti un’idea di che cosa sia un bagno rituale purificatore, necessario per essere riammessa al cospetto del marito (e, più in generale, in società).

Anche l’Islam prescrive un lavaggio completo, come rituale, per recuperare la purità, alla conclusione del ciclo mestruale. Nell’induismo, durante le mestruazioni, le donne non possono compiere la puja. A queste si aggiungono credenze popolari su cicli lunari e maree e altre più legate alla vita quotidiana, che vanno dal «se hai il ciclo non puoi lavarti» al «se fai la maionese durante il ciclo, impazzisce». Vi lascio immaginare cosa si trova nel mezzo. 

Le shitstorm sui social

Le discriminazione che da millenni le donne e le altre soggettività subiscono durante le mestruazioni sono tantissime e, a più livelli, drammatiche e umilianti. Le cose sono cambiate? Non troppo. Oggi se una donna posta sui social una foto con una macchia di sangue mestruale o un assorbente in vista, viene travolta da insulti, quando non censurata. Se lo fa una persona trans o non binaria, la shitstorm è automaticamente moltiplicata. Per questo inserire in produzioni televisive mainstream scene che normalizzano il ciclo è importante.

Torniamo a chiederci: perché il mestruo fa così paura? Probabilmente perché parte della società vorrebbe fingere che non esista e continuare a discriminare le donne e altre soggettività perché hanno il ciclo – quante volte ci siamo sentite dire: «Sei nervosa, hai le tue cose?» anche in contesti lavorativi – e ignorare il dibattito sulla presa in carico di una questione che riguarda la salute riproduttiva di quasi metà della popolazione mondiale: la battaglia per il riconoscimento dell’endometriosi, l’eliminazione dell’Iva dagli assorbenti (e non solo la riduzione) e una distribuzione gratuita nelle scuole e nei luoghi di aggregazione e di cura, l’approvazione del congedo mestruale sia lavorativo che scolastico, la formazione del personale medico e sanitario perché sia rispettoso e accogliente verso tutte le soggettività, rendere più inclusive farmacie e negozi di prodotti intimi e accettare che sì, una volta al mese, sanguiniamo, e non abbiamo intenzione di vergognarci o nasconderci.

© Riproduzione riservata