Cos'hanno in comune Voltaire, Tony Blair e lo storico François Furet? Sono gli autori degli ultimi tre libri pubblicati da Silvio Berlusconi editore, i primi dopo un'interruzione durata trent'anni e soprattutto i primi dopo la morte del fondatore.

Nella sua precedente incarnazione, la casa editrice aveva pubblicato eleganti edizioni dei classici del pensiero umanista, con prefazioni del Cavaliere in persona.

La scelta dei nuovi titoli è rappresentativa di quello che fu - o perlomeno cercò di essere – il berlusconismo “alto”, e forse anche di quello che gli eredi vorrebbero fosse il suo lascito.

Voltaire, ovviamente, vale come simbolo della libertà d'espressione, tema mai così attuale. Blair, da parte sua, fu il promotore di una sintesi tra liberalismo economico e liberalismo sociale; un politico tanto affezionato ai valori progressisti da essersi convinto che si potessero “esportare” manu militari. Quanto a Furet, sebbene meno noto dei precedenti, potremmo dire che nel suo libro appena ripubblicato a cura di Marina Valensise – Il passato di un'illusione – sembra intravedersi la chiave dell'operazione editoriale.

Chi ha paura del comunismo?

All'uscita del libro, nel 1994, lo storico era conosciuto soprattutto per avere rivoluzionato gli studi sulla Rivoluzione francese, denunciando nell'esperienza giacobina la radice del totalitarismo novecentesco. Il passato di un'illusione esplicitava il ragionamento concentrandosi sull'idea comunista. Ebbe in Francia un successo fenomenale. Le malelingue dissero che era datato già all'epoca: Furet firmava un pamphlet anti-comunista a pochi anni dalla caduta dell'URSS, col PCF sotto il 10%, scavalcato dal Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen.

Il passato di un'illusione fu parte di un rito di catarsi collettiva, il punto finale di una storia durata mezzo secolo. Poi iniziò un'altra storia, segnata dalla conversione di molti reduci del comunismo ai valori del libero mercato. Erano, appunto, gli anni di Blair. Chi mai avrebbe potuto sostenere che in Occidente ci fosse ancora una minaccia comunista?

Lui: Silvio Berlusconi. Vintage come un disco dei CCCP, il fondatore di Forza Italia ha continuato a sventolare lo spauracchio del comunismo per tutti gli anni Novanta e Duemila.

Se il comunismo storico era morto, tuttavia qualcosa di esso sopravviveva sottotraccia: una cultura che, per il Cavaliere, spiegava sia l’Unione Sovietica che le peculiarità dello statalismo italiano, ovvero burocrazia inefficiente e ipertrofia legislativa. Combattere quella cultura comune è stata la missione storica – sebbene irrealizzata – del berlusconismo.

Totalitarismo giacobino

Lo stesso Furet, denunciando l'illusione comunista a babbo morto, non mirava tanto all’URSS quanto alla cultura della sinistra francese. Allo storico non interessava che l'intellighenzia si fosse eventualmente illusa in passato, come lui stesso d'altronde, sulle virtù dello stalinismo; gli premeva semmai trovare in quel passato la chiave di un'illusione persistente, dalla quale seguivano – ora, oggi, nel presente – certe resistenze alla modernizzazione del paese.

L’Urss era dunque, per lui, lo specchio deformante della Francia, come poi dell'Italia per Berlusconi. La République, figlia segreta dell'assolutismo monarchico, era una tappa nel processo secolare di sottomissione del sociale al politico attraverso quel “mostro moderno” che è lo Stato. La rivoluzione del 1917 era una replica di quella del 1789, il giacobinismo la malattia cronica delle società complesse.

Giacobina, secondo questa visione, è l’ambizione di raddrizzare il legno storto dell'umanità, governando la società dall'alto al basso o dal centro alla periferia, attraverso le astrazioni reificanti della Ragione. Il Terrore non fu un incidente di percorso, ma il momento di verità della rivoluzione. Dopo Robespierre, la medesima ambizione era stata dei bolscevichi in Russia, attraverso il dominio totale dello Stato sulla società e della tecnica sulla natura.

Per lo storico francese, questa ambizione non è crollata con il muro di Berlino: essa sopravvive nell’inconscio burocratico della socialdemocrazia, ennesima incarnazione della dialettica dell'illuminismo. Pare di sentire Silvio: «Siete ancora, oggi e come sempre, dei poveri comunisti».

ANSA

È difficile trovare, in Francia, un intellettuale odiato a sinistra quanto Furet: perché alla reputazione di essere stato il più autorevole ideologo della svolta neo-liberale si aggiunge la colpa di essere un ex-compagno e perciò un traditore. Eppure a chi lo dipingeva come un liberale o peggio un conservatore, il veterano rivoluzionario Cornelius Castoriadis rispondeva che Furet era semmai più vicino all’estrema sinistra. La sua denuncia della forza astraente della ragione illuminista non era poi tanto lontana da quella della Scuola di Francoforte. Nella seconda metà del Novecento il gauchisme aveva portato molti intellettuali francesi a criticare prima Stalin, poi Lenin e addirittura Marx, rivendicando i valori di libertà dell’anarchismo, del trotskismo, dei consigli rivoluzionari… per infine approdare alla terza via di Tony Blair. O direttamente accanto a Blair, nel catalogo della Silvio Berlusconi editore.

La bancarotta del liberalismo

A questa compagine eterogenea di autori si aggiungerà presto nel berluscatalogo un italiano, Walter Siti. Il grande romanziere, studioso di Pier Paolo Pasolini, ha rivendicato più volte un ideale di arte libera da vincoli morali e politici, diventando uno dei rappresentanti più autorevoli del fronte anti-woke, cioè contro la cancel culture e il politicamente corretto. Tutto torna: per molti liberali, la cultura woke sarebbe per l'appunto la reincarnazione definitiva della tradizione giacobina-totalitaria, che eternamente persegue il bene ed eternamente realizza il male.

Contro di essa gli eredi di Berlusconi promuovono un altro illuminismo, quello liberale di Voltaire, alfiere della tolleranza e giocoliere dell'ironia. Le sue Lettere inglesi, ripubblicate nella traduzione di Antonio Gurrado, sono un inno al libero commercio che (assieme, ehm, alle colonie) ha reso prospera l'Inghilterra nel Settecento. Ma le Lettere, condannate e bruciate a Parigi nel 1733, sono anche un libro simbolo della lotta contro la censura.

Eppure il liberalismo resta, in Italia come in Francia, nel migliore dei casi una tradizione minoritaria e nel peggiore un cantiere incompiuto. Certo, la questione della libertà non è mai stata così attuale: il conflitto tra le richieste di autonomia – libertà d'impresa, d'espressione, di cura… – e le necessità di regolazione – dell'economia, del linguaggio, della salute… – ha raggiunto il suo punto di incandescenza. Ma oggi è la destra più dura ad essersi intestata queste battaglie, rivelando che spesso l'apologia della libertà è soltanto la foglia di fico della legge del più forte.

I soliti maligni hanno ripetuto a lungo che il risveglio dall'illusione comunista ha portato, negli anni della Terza via, alla passiva accettazione dello status quo. Oggi però la situazione è diventata persino più fosca. I liberali, pur di non venire a patti con la sinistra erede del giacobinismo, governano appoggiando (in Italia) o appoggiati (in Francia) dagli eredi del fascismo. È ironico che tanti sforzi intellettuali per costruire un'alternativa alla burocratizzazione del mondo abbiano nutrito, in entrambi paesi, un centro sostanzialmente succube all’estrema destra. Per evitare la bancarotta del liberalismo non basteranno le preghiere a Voltaire.

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