«Non con la dolcezza delle voci né con la novità e la varietà del canto pare che le sirene fossero solite trattenere quelli che navigavano nei pressi, ma poiché dichiaravano di conoscere molte cose, cosicché gli uomini per bramosia di sapere sbattevano contro i loro scogli» (Cicerone).

Vittime, come tutti siamo, dei rapinosi incantesimi dell’infanzia, ci sarà capitato d’intravedere, tra le increspature estive di un mare azzurrissimo, il corpo sinuoso di una sirena. E allo stesso modo ci si sarà sentiti dire di lasciar perdere, di tapparsi le orecchie, non ascoltare quel canto. Il solito errore di prospettiva: quel canto avrebbe potuto salvare il mondo. E potrebbe farlo ancora.

Persefone – la Proserpina latina – giocava tranquilla nei campi con le sue tre ancelle, com’era suo solito – e come possono permettersi solo le ragazze divine o nobili – quando Ade, innamoratosi di lei, la rapì. Da allora gli Inferi ebbero la sua regina. Leggenda vuole però che qualcosa di straordinario accadde alle tre ancelle di Persefone: tanto intenso fu il desiderio di cercare l’amica, che le loro braccia si trasformarono in ali, e le gambe in zampe. Dalla fusione dei tratti degli uccelli con quelli umani nacquero le feroci Sirene. Stettero per un po’ sulle rocce alle pendici dell’Etna; poi si spostarono e trovarono dimora in un’isola nel Tirreno. Erano lì quando le incontrò Odisseo, e da lì per secoli, con occhi di fuoco, hanno scrutato il mare senza alcuna pietà per gli uomini e per le loro innumerevoli debolezze. Vivevano ormai nel tempo eterno, offrendo ai marinai di passaggio la disperata conoscenza degli esseri immortali.

In Omero, che ci restituisce il racconto più antico che abbiamo su queste creature misteriose, le Sirene non vengono descritte: non sono i loro corpi mostruosi a essere importanti, bensì il canto di cui sono capaci: «Perciò passa oltre: sulle orecchie ai compagni impasta / e spalma dolcissima cera, che nessuno degli altri / le senta: tu ascolta pure, se vuoi: / mani e piedi ti leghino alla nave veloce / ritto sulla scassa dell’albero, ad esso sian strette le funi, / perché possa udire la voce delle Sirene e goderne» – così Circe ammonisce Odisseo. Il luogo dove le Sirene risiedono, quando Odisseo vi si avvicina, è immerso in una profondissima calma: non appena le creature percepiscono la nave veloce, intonano un limpido canto.

«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, / e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce. / Nessuno è mai passato di qui con la nera nave / senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, / ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose». Come gli uomini che, sedotti dal proprio stesso canto, si dimenticarono di bere e di mangiare e si trasformarono in cicale, secondo il racconto di Socrate, così bisogna stringere forte le corde e tappare bene le orecchie se non si vuole dimenticare se stessi e soccombere al canto di queste creature. Intorno alle Sirene, Omero ce lo dice, c’è un mucchio di ossa di uomini putridi: uomini che, una volta ascoltate quelle voci, non hanno più ripreso il mare.

Dobbiamo supporre che, quando Odisseo le incontra, le Sirene hanno zampe da uccello e ali. Nasce solo più tardi la lunga coda da pesce con cui si sono radicate nel nostro immaginario. Si legge nel Liber monstrorum de diversis generibus (VIII d. C.): «Le sirene sono fanciulle marine che seducono i marinai con la bellezza del corpo e la dolcezza del canto. Dalla testa fino all’ombelico hanno aspetto di vergine, del tutto simili a creature umane. Hanno però code squamose di pesce, che nascondono sempre sott’acqua».

Nel Medioevo poi, vittime di una nuova concezione tutta cristiana della cultura, molto più restrittiva e morale di quella greca, le sirene depongono non solo le ali, ma anche il loro ruolo di portatrici di conoscenza: diventano “solo” infide e potenti ammaliatrici. Nel loro destino metamorfico le sirene «sono la voce che rimane sola a regolare le sfere del cosmo, la voce che ricorda la vita – il fascino di ciò che si desidera, nel regno della morte, la voce di quel momento in cui qualcosa che c’era può non esserci più, o c’è in altra forma: la voce delle metamorfosi, appunto» (Luigi Spina, Il mito delle sirene).

Qualsiasi sia il loro ruolo, qualsiasi proiezione incarnino, gli avvistamenti di questi esseri ambigui e desiderabili non sono mai finiti. Nel diario di bordo di Cristoforo Colombo si legge che ne furono avvistate tre a Rio de Oro, ma che non sembravano affatto belle come si narrava. Un altro esploratore inglese, Henry Hudson, giurò di averne vista una nell’Oceano Artico. Nel corso dell’Ottocento si diffuse la moda di creare degli ibridi artificiali – dette “Sirene delle Figi” – per soddisfare la curiosità e il desiderio di chi non si rassegnava a considerarle solo figure del sogno, pur non riuscendole a ritrovare, neanche per un’illusione, nella realtà: un’esemplare è conservato al Museo civico di Modena. Nel 2009 a Kiyart Yam il turismo ebbe un notevole incremento dopo che iniziò a girare la voce di diversi avvistamenti di sirene: il Comune promise un milione di dollari a chi fosse riuscito a portare prove concrete della loro esistenza.

Oltre agli avvistamenti nella realtà, nell’epoca moderna anche la letteratura ha provato tener vive le sirene, da James Joyce a Franz Kafka, da T.S. Eliot a Giuseppe Tomasi di Lampedusa – come scriveva Elias Canetti, «torniamo a riassumerci sempre in un mito antico». Molto vivida nella memoria dei lettori che l’hanno incontrata sarà l’immagine di quella sirenetta servita alla tavola del Generale Cork ne La pelle di Curzio Malaparte. La moglie del Generale, decisa a voler offrire ai suoi ospiti una cena di pesce, ma essendo ormai il mare di Napoli inquinato e pieno di mine, ripiega sui pesci dell’acquario cittadino, rimanendo poi pietrificata dall’orrore nel vedere portata in tavola sul vassoio una creatura dalle forme di bambina, la leggendaria sirena dell’acquario partenopeo: «Poteva avere non più di otto o dieci anni, sebbene a prima vista, tanto era precoce, di forme già donnesche, ne paresse quindici. Qua e là strappata, o spappolata dalla cottura, specie sulle spalle e sui fianchi, la pelle lasciava intravedere per gli spacchi e le incrinature la carne tenera, dove argentea, dove dorata».

Poi, da quando Andersen ha osato immaginare una sirenetta che – ovviamente per amore – arriva a desiderare di avere lunghe gambe al posto di una lucentissima coda, il replicarsi di innocue sirenette in pubblicità e insegne luminose di ristoranti, hotel e bar, potrebbe davvero causare la loro estinzione. Tuttavia, mentre queste creature svaniscono dal mondo, scompare anche quel desiderio di conoscenza di cui, ai tempi di Odisseo, erano portatrici. Un essere, per di più femminile, capace di portare gli uomini alla morte scatenando il loro desiderio di conoscenza sembra forse troppo pericoloso al mondo moderno. Molto meglio una romantica sirenetta innamorata. A guardarsi intorno ci si imbatte in una crudele mancanza di conoscenza, a cui si sostituisce il quasi religioso desiderio di non sapere. La conoscenza, d’altra parte, prevede passioni ardenti, spaventose, e la perversione capitalistica in cui siamo immersi mal si concilia con la grande quantità di tempo che pretende. Conoscenza che non è soltanto quella che si annida in biblioteche e accademie, ma anche quella, più sottile e pericolosa, dei desideri complessi, delle inclinazioni silenziose, di quelle aree di confine fra la volontà di costruire e il desiderio di farsi distruggere.

Nel contemporaneo: togliersi i tappi di cera. Lasciarsi morire. Soccombere alle sirene.

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