Aveva ragione Mark Fisher nel suo libro Realismo capitalista – che si è dimostrato capace di prevedere il futuro meglio dei tarocchi – quando scriveva dell’«attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti» più che all’«effettiva concretezza del risultato in sé».

Tutto si consuma per questo momento, o per il suo minimo differimento nei social. In questa parata di Sanremo in cui si conferma il dominio della moda, la centralità è slittata. A riempire di senso lo spazio performativo in cui sfuma il confine tra corpo e abito, in cui il corpo alla moda si modella cioè nel ritmo della musica, non è solo o non è tanto il singolo abito – o, dovremmo dire, il singolo look – ma è il progetto per questo o quel cantante finalizzato alla risonanza che le sue immagini potranno avere, con una moltiplicazione di potenza, nelle reti dei social.

Romanzo presente

In questo romanzo visuale del nostro immediato presente, innescato dal doppio movimento del guardare e dell’essere guardati, colpiscono poi soprattutto delle ricorrenze, che diventano particolarmente interessanti in quella che ancora ci ostiniamo a chiamare moda maschile. D’altronde, l’abbigliamento maschile è la grande storia, non scritta, della vita moderna.

Sul palco di Sanremo, da alcuni anni molti autori, designer e stylist compiono operazioni che mettono in discussione la tradizionale fissità del vestire da uomo e ne negano i paradigmi tradizionali, pur muovendosi all’interno delle regole non scritte che lo caratterizzano: esperienze che erodono la fissità del vestire maschile – e del ruolo del maschio.

È il bianco, il colore che contiene tutti i colori, a precisare molte delle apparizioni maschili al festival: il colore simbolo di purezza ma anche pagina immacolata su cui scrivere (d’altronde nella prima serata è stato quasi letteralmente tale il peplo bianco di Chiara Ferragni su cui trovavano posto le scritte degli haters). «Comunque una camicia bianca» affermava Franco Moschino in una scritta sul muro del suo negozio in via Durini a Milano, come a liquidare la solita domanda: cosa mi metto? 

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Per l’uomo riappropriarsi del bianco è abbandonare definitivamente la “grande rinuncia” fatta con l’adozione ottocentesca dell’uniforme borghese: l’abito scuro in tre pezzi. Quello, per intenderci, che ha indossato Fedez, risultando così trasgressivo rispetto al suo personaggio, nella serata delle cover in coppia con gli Articolo 31, e marcando simultaneamente la differenza tra lui e loro, anche se tornati amici.

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Fragilità esposta

Indossare il bianco è dichiarare una fragilità che non si è più obbligati a nascondere, come per Blanco che, anche quest’anno di bianco vestito a dare consistenza visiva e simbolica al suo nome, non riesce a dominare l’ira per il malfunzionamento degli auricolari e prende a calci le rose rosse disposte sulla scena. Insanguinando, come in una fiaba, per proprietà transitiva, il suo abito.

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Il bianco del giovane gIANMARIA ha qualcosa di virginale, soprattutto quando l’ampia camicia si apre sul petto glabro dove intravediamo la fine di un nome tatuato e un capezzolo che fa parlare, come una volta facevano parlare quelli femminili. È la zona erogena mutevole – come la definiva nel 1969 lo storico della moda James Laver pensando al corpo femminile –, cioè quella parte del corpo che a seconda dei momenti storici viene enfatizzata dalla moda come centro principale di fascino erotico.

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L’abito si fa corpo, ma a sua volta il corpo viene portato come un abito. La giacca viene indossata sopra la pelle nuda, come fa Sethu, che così orienta lo sguardo al corpo frammentato e alle sue modificazioni e interpretazioni in relazione all’abito. Il corpo frammentato è una delle ossessioni del feticismo, anche attraverso i materiali: la pelle, il latex, la seta. Quella parte per il tutto che direziona il desiderio riaggiornandone le mappe. Marco Mengoni si esibisce fasciato in pelle nera, un po’ Village People, un po’ Robert Mapplethorpe, con la camicia borchiata che si apre sotto la gola.

Rigenerare il desiderio

L’abito rigenera il desiderio e ogni volta lo riarticola. Rosa Chemical usa il latex rosa per costringere il petto, mette un bustier sadomaso sotto la giacca, evoca il bondage, si presenta con un sex toy per esasperare e gridare quello vuole essere, ma soprattutto quello che non vuole essere. Usa la moda perché è quella disciplina che ha a che fare con il sesso, con il corpo, con il desiderio. Quel medium che esprime e amplifica i nostri desideri inespressi, ora più che mai intrinsechi al genere e alla progettazione del sé e dell’altro.

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Mentre le musiche plasmano l’atmosfera, l’abito direziona una nuova gestualità. E soprattutto suggerisce una riflessione sulla contemporaneità e su chi possiamo essere oggi.

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