Apparvero nella notte romana all’improvviso, gli occhi di Totò Schillaci, come le lucciole che Pier Paolo Pasolini diceva di aver perduto. Furono una promessa, perché si sgranavano dopo i gol di Italia ‘90, calcisticamente il peggior mondiale giocato, che ricorderemo per sempre proprio per To-tò che nelle due “o” nel nome si portava gli occhi e che nella sua forma contratta denunciava i due tocchi – al massimo – che concedeva al pallone, la rapidità di gioco come di parola accompagnata dall’inafferrabilità dello sguardo.

Occhi che sembravano quelli di Anna Magnani nel finale di Roma città aperta di Roberto Rossellini, aperti sull’inafferrabile, figli dell’immediatezza popolare. Quegli occhi e quel mondiale ebbero una colonna sonora: la canzone di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, Un’estate italiana (Notti magiche), che poi è diventata una etichetta. In realtà la colonna sonora degli occhi di Totò prima di quell’estate era il rumore delle marmitte scassate dei motorini siciliani, erano le urla scomposte sui campi di periferia e le suppliche per aver il pallone davanti al portiere.

Cosa disse Brera di lui

Totò e i suoi occhi furono i testimonial dell’ultima Italia effimera e speranzosa, illudente e illusa, quella della Prima Repubblica, e portavano il tragico: perché Schillaci era tragico, tanto da sembrare un personaggio del teatro di Franco Scaldati. Di chi all’improvviso e con molta meraviglia si rende conto di esistere – in scena e sul campo – e durare solo un atto o due, ma con sei gol che tutti ricordano.

C’erano la fame, il Mediterraneo di tutti gli ignoti marinai perduti e la rassegnazione che lui aggirò, in quella estate, e la disubbidienza di chi ha giocato per strada e sui campi della C e della B, perché il viaggio di Totò e dei suoi occhi è un viaggio lungo assai che parte dal quartiere CEP di Palermo e arriva fino in Giappone, con gli occhi e i piedi di chi ha cominciato imparando a controllare il pallone tra i basoli bagnati delle piazze scalcagnate ed è finito nei videogiochi.

Cadevano i muri, stava arrivando Tangentopoli, ma intanto c’era l’estate e in mezzo due fari: gli occhi di Totò. E intorno c’era un uomo-mostro, almeno secondo quello che vide Gianni Brera nella notte romana: «Traccagno di struttura quasi brevilinea, baricentro modicamente basso, cattiveria istintiva nel ricercare il possesso della palla, che mai vorrebbe mollare a bipedi secondari. Capacità di ingobbire caricando il destro come una balista da assedio. E la spocchia incredibile di sfidare anche il proprio destino fingendosi gigante fra tanti gnomi che pure gli somigliano».

Una sola estate

Ma Totò e i suoi occhi da Klaus Kinski, da autoritratto di Arnold Schoenberg, non facevano paura, anzi, affratellavano, perché erano occhi da cinema, da pittura, da teatro, erano piazza, strada, periferia. Non c’erano altri occhi così sui campi. Che non dicevano come Gigi Proietti A me gli occhi, please, ma «ecco i miei occhi, paisà», che ricordavano quelli di Luis Buñuel e chissà se l’ha mai saputo o c’ha fatto caso. Perché Totò è passato veloce negli occhi degli italiani, rimanendo nei loro ricordi. Ha corso tutta la vita in una estate, uscendo allo scoperto.

Leo Benvenuti diceva: «In fondo la vita sono venti estati utili», per Totò è stata una sola, quella vista da tutti, quella cambiata a tutti, quella del 1990, il resto, le altre, quelle davvero belle sono state a Messina dove lo videro Franco Scoglio e Zdeněk Zeman accorgendosi che quel ragazzo e i suoi occhi erano zavattiniani. C’era la magia nei suoi piedi e in come guardava la porta una forza differente, antica. C’era la fame dietro i suoi gol, disse Scoglio, un antropologo prestato alle panchine. Perché Totò e i suoi occhi non cadevano con l’ultima luce, no, nella notte si accendevano, erano un romanzo notturno. Portavano la luce e i gol.

C’era un’ombra

Un sospiro di cielo a Messina, una serie di spari all’Olimpico, lo stupore alla Juventus – in rovesciata e punizione – la delusione all’Inter, un astro arcano allo Júbilo Iwata: dove divenne Totò-san. C’era un’ombra nei suoi occhi, era la calce dei muratori che l’avevano preceduto non trovando un campo tra la sabbia ma un cantiere, il sangue di quelli che come lui avevano avuto una pistola e non un pallone, perché Totò e i suoi occhi erano i primi della loro stirpe a diventare ricchi.

Perché se il mondo è degli sconosciuti – come scriveva Salvo Licata, lo scrittore della Palermo o-scura – Totò era uno di questi che, però, con sei gol si consegnò alla storia. Apparve. Ogni gol una notte, ogni notte uno sguardo diverso, e per ogni sguardo una gioia enorme consegnata agli italiani e che Schillaci sembrava voler misurare con le braccia, aprendole come Domenico Modugno quando cantava Volare. Perché negli occhi di Totò c’era l’assalto alle complicazioni dell’esistenza: i suoi gol erano il requiem per un mondo che finiva, ma sembrava il carnevale infinito della giovinezza, che solo i piedi di Maradona potevano interrompere. Adesso quegli occhi sono chiusi.

Non c’è più la luce, l’istinto, la voglia. Ma un’eco lontana di stupore bambino. L’anima pietrificata nelle parole di Bruno Pizzul, l’Omero di quella estate mondiale, quando scoprimmo che gli attaccanti avevano gli occhi e che gli occhi non erano solo occhi, ma un memoriale di sospiri e urla, un catalogo di gol – quelli di Totò – che portavano l’ebbrezza d’un vaneggiamento che credevamo essere il preludio alla felicità e che invece era la felicità, nella sua forma più semplice: lo stare insieme intorno a un pallone che entra in porta.

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