La decisione di Bergoglio più caratterizzante e più criticata nel riordinamento della curia romana – varato nel 2022 e altrettanto controverso – è l’emarginazione della Segreteria di stato. Questa, dopo la radicale riforma di Montini, era stata invece centrale per mezzo secolo come strumento al servizio del pontefice. Ma la storia dell’organismo è molto più antica.

Le origini risalgono alla fine del medioevo, quando l’autorità papale riprende forza dopo il periodo avignonese e il grande scisma d’occidente durante il quale arrivano a contrapporsi tre papi.

Viene allora costituito un gruppo, non molto strutturato e composto in prevalenza da intellettuali e umanisti – spesso eccellenti come Poggio Bracciolini, Ambrogio Traversari, Giannozzo Manetti, Lorenzo Valla – che appartengono alla camera secreta e sono detti secretarii.

Nell’evoluzione ondivaga dell’organismo si affermano in seguito figure diverse, tutte legate da un rapporto di fiducia con il pontefice: tra questi il «cardinal nipote» (ovviamente del papa), detto anche «cardinal padrone», che però s’indebolisce con la riforma della curia voluta nel 1586 da Sisto V.

Il primo segretario

Alcuni decenni più tardi prende forma l’organismo moderno, che inizia a sostituire il morente collegio dei segretari apostolici, soppresso tra accese polemiche nel 1678. Ma già nel 1644 era comparso ufficialmente il titolo di «segretario di stato» assunto da Giovanni Giacomo Panciroli. Romano, «di nascita bassa e plebea», il primo cardinale segretario di stato era un abile e avveduto diplomatico.

Ma il prelato dovette fronteggiare una donna, l’invadente e potentissima Olimpia Maidalchini, cognata di Giovan Battista Pamphilj, divenuto Innocenzo X. La sua notoria influenza aveva scatenato già in conclave un prevedibile repertorio – «avremo una papessa» sbottò uno dei cardinali contrari a Pamphilj – e in Inghilterra alla misoginia si aggiunse l’antipapismo anglicano nell’ispirare una commedia che arrivò a mettere in scena «il matrimonio del papa» (The Marriage of the Pope).

Il cardinale Panciroli è stato il primo di una serie costituita da 53 segretari di stato. Ma soltanto tre di loro sono diventati papi: il senese Fabio Chigi, che nel 1655 prende il nome di Alessandro VII, uno dei pontefici a cui Roma deve il suo assetto urbanistico; il pistoiese Giulio Rospigliosi, dal 1667 divenuto Clemente IX, un pacificatore; infine il romano Eugenio Pacelli, che nel 1939 decide di chiamarsi Pio XII.

È dunque molto difficile che sia eletto papa il segretario di stato, troppo identificato con il pontefice appena scomparso. Ma ancora più difficile è che il primo collaboratore del papa non sia italiano. Solo nel secolo scorso due prelati – Rafael Merry del Val e Jean Villot – hanno infatti costituito un’eccezione alla serie tutta italiana dei segretari di stato. Quelli davvero importanti si concentrano tra il 1800 e il 1990: Ercole Consalvi, il più geniale, poi Giacomo Antonelli, alter ego di Pio IX, Mariano Rampolla, Pietro Gasparri, Domenico Tardini e Agostino Casaroli.

La sopresa di Villot

Dei due non italiani Villot era stato nominato da Paolo VI nel 1969 per sostituire l’ottantaseienne Amleto Cicognani. Per di più, era da oltre un secolo che non diveniva segretario di stato un prelato estraneo alla diplomazia papale – la circostanza si ripeterà nel 2006 quando Benedetto XVI nominerà il criticatissimo salesiano Tarcisio Bertone – e la scelta di Montini, che deluse i curiali italiani, fu accolta con sorpresa. Uomo solitario e riservato, il cardinale venne confermato dall’ultimo papa italiano, Luciani, morto il 28 settembre 1978 dopo appena un mese di pontificato, ma temporaneamente anche da Wojtyła.

Il primo pontefice non italiano dopo quasi mezzo millennio aveva infatti detto a Villot il 19 ottobre – già tre giorni dopo l’elezione – che l’internazionalizzazione della curia aveva raggiunto il culmine con la nomina di un francese come segretario di stato e fece capire al prelato di voler nominare al suo posto un italiano. Villot propose allora una sua conferma «finché si decidesse diversamente» (donec aliter provideatur, secondo la formula curiale) e Giovanni Paolo II accettò. Ma la coabitazione durò poco perché il segretario di stato morì il 9 marzo 1979 e il papa nominò al suo posto l’italiano Casaroli.

Alle critiche di chi aveva giudicato la personalità del prelato francese grigia e insignificante intendeva rispondere un decennio più tardi la biografia (Le cardinal Jean Villot, Desclée de Brouwer) del suo amico e confidente Antoine Wenger. Ma l’intelligente osservatore non ignorava i limiti del segretario di stato. Villot – scriveva – possedeva «le qualità d’intelligenza e di cuore per esercitare le più alte responsabilità», ma «non aveva la forza fisica né la tempra morale per navigare in alto mare e affrontare le tempeste».

Il primo non italiano

Un carattere ben più definito aveva invece dimostrato tra il 1903 e il 1914 il primo segretario di stato non italiano: Rafael Merry del Val. Questo aristocratico spagnolo di madre scozzese volle e seppe identificarsi totalmente con il pontefice che l’aveva inusualmente nominato suscitando non poche delusioni: Pio X, un papa nuovo e riformatore, ma che represse senza esitare il modernismo, considerato un cumulo di eresie. Figlio di un diplomatico, Merry del Val era nato a Londra nel 1865. Entrato in seminario, a vent’anni venne presentato a Leone XIII, e il pontefice – già avanti negli anni e che un affascinato Émile Zola avrebbe descritto «dal candore diafano, come una lampada d’alabastro illuminata dall’interno» – fu molto colpito dal seminarista, e scelse per lui l’Accademia dei nobili ecclesiastici, dove si preparavano i futuri rappresentanti pontifici.

La carriera di Merry del Val fu fulminea. Brillante, preparato e poliglotta, nel 1891 entrò nella cerchia ristretta della «famiglia pontificia» e contribuì a elaborare la linea di fermezza teologica decisa da Roma sul versante ecumenico e su quello dottrinale: confermando l’invalidità delle ordinazioni anglicane e condannando l’americanismo, un movimento di adattamento alla modernità.

Delegato papale in Canada, nel 1899 tornò come presidente (e arcivescovo) all’Accademia da dove era uscito otto anni prima e, morto il vecchissimo papa Pecci, nel 1903 fu nominato segretario del conclave – grazie al sostegno del cardinale decano Oreglia – come soluzione di compromesso.

Da oltre un quindicennio nella curia di Leone XIII, ossessionato dal contrasto con l’Italia per la «questione romana», era in atto lo scontro fra il «nucleo tedesco» e i filofrancesi rappresentati dal segretario di stato Rampolla del Tindaro, un aristocratico siciliano «di ingegno» nominato nel 1887, ma anche dal rude canonista Pietro Gasparri.

Il conclave ne fu condizionato al punto che mezz’ora dopo la morte del papa un telegramma del ministero degli esteri austro-ungarico chiedeva all’ambasciatore presso la Santa sede di prepararsi al veto – antica prerogativa delle monarchie cattoliche, dal 1831 non più esercitata – contro il troppo politico Rampolla. A essere eletto fu così Giuseppe Sarto, il patriarca di Venezia considerato una figura dal profilo religioso estranea alla politica e alla diplomazia. Con il nome di Pio X il papa governò con fermezza la chiesa sino allo scoppio della guerra mondiale. Totale fu il sostegno al papa di Merry del Val, nominato segretario di stato a soli 38 anni, ma poi papabile sconfitto nei conclavi del 1914 e del 1922 dove prevalse la linea avversa rappresentata da Gasparri, che fu segretario di stato dal 1914 al 1930.

Le ombre sulla morte

Questa storia fitta di colpi di scena è ricostruita con rigore da Roberto de Mattei (Merry del Val, Sugarco) secondo un’interpretazione tradizionalista e con toni apologetici, ma senza nascondere gli scandali (anche sessuali) e i ricatti curiali. Fino alla morte nel 1930 del protagonista, che era stato nominato responsabile del Sant’Uffizio, durante una banale operazione d’appendicite su cui grava tuttora l’ombra dell’assassinio.

Merry del Val attraversa un quarantennio ai più alti livelli della curia romana, dove si succedono riforme decisive ma anche la repressione che fa terra bruciata del modernismo, in un contesto mondiale segnato da trasformazioni violente. Poco prima della morte l’antico segretario di stato di Pio X incontra il cardinale Segura, arcivescovo di Toledo e primate di Spagna, e con amaro realismo gli parla degli aspetti divino e umano nella chiesa: darei la vita per il primo – confida all’amico – «ma quanto al suo lato umano, mio caro Pedro, com’è miserabile».

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