Desta ancora discussioni e conflitti interpretativi la dissimulazione del colonialismo nella memoria pubblica. Continua fu la rimozione del passato coloniale degli Italiani, le loro responsabilità e la natura dei regimi di occupazione instaurati, nel Corno d’Africa come in Libia, la cui perdita si ebbe già nel corso della Seconda guerra mondiale).

Di tutto ciò, muovendo da fine Ottocento e arrivando ai giorni nostri, si occupano Valeria Deplano e Alessandro Pes (Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni, Carocci 2024), permettendo alla storia del colonialismo non solo di essere ripensata come parte ineludibile della storia d’Italia ma anche di concorrere a meglio definirne i caratteri nello spettro più ampio del colonialismo e dell’imperialismo europei.

Interessa oggi comprendere quale sia la presenza dell’eredità coloniale nello spazio pubblico, attraverso la scuola e l’università, la toponomastica e i luoghi di memoria, la mobilità migratoria così come i linguaggi della comunicazione.

Se repentino era stato lo smantellamento dell’impero fascista, al contrario, perdurante rimase nella storia della Repubblica l’eco di un “discorso coloniale” attardato sulla riproposizione del mito del “bravo italiano”; ovvero, nella rappresentazione del “buon colonizzatore”, con la coniugazione di posizioni ufficiali di “condanna” del passato coloniale e però con la riaffermata e presunta idea di un colonialismo italiano diverso da quelli di altre potenze europee, meno oppressivo e più umano. La costruzione dell’Italia e della cittadinanza repubblicana non sono dunque affatto distinte dal processo di ritardata e incompiuta decolonizzazione del paese.

Processo incompiuto

In Italia l’impatto quantitativo dei migranti postcoloniali fu impari rispetto a quello avutosi in altri paesi europei; sia per la mancanza di precedenti e consolidate catene migratorie, sia per l’aperta ostilità incontrata da uomini e donne provenienti dalle ex colonie (compresi i meticci), visti come un corpo estraneo e pericolosi per l’integrità nazionale.

Come osservano gli autori, «nonostante il cambio di regime e l’antirazzismo proclamato dalla Carta costituzionale repubblicana, nel concreto la “bianchezza” continuava a rappresentare una caratteristica fondamentale e imprescindibile per essere considerati parte della nazione italiana». L’Italia repubblicana dimostrò «quanto le concezioni di italianità e alterità elaborate durante il periodo coloniale continuassero a essere condivise dai funzionari e dalla classe dirigente repubblicana» (pp. 156-157).

Insieme ad una radicale e corrosiva critica dell’Italia democratica e antifascista, facendo da cassa di risonanza alle istanze delle associazioni dei profughi italiani d’Africa, furono i giornali e i rotocalchi popolari che davano voce all’«Italia moderata» (Oggi, Gente, Epoca, ecc.) a veicolare rappresentazioni e immagini intese a promuovere la difesa e la valorizzazione del «bravo soldato italiano».

Di quel sentimento pervasivo era parte essenziale la rivisitazione dell’espansionismo coloniale fascista. Per non dire dell’eco che di quel mito si trasfondeva dalla pubblicistica moderata ai manuali scolastici, nei quali il colonialismo italiano è stato a lungo trattato in termini benevoli e parziali (sul piano sia cronologico sia contenutistico).

Con i paesi africani ex coloniali, a lungo è rimasto aperto un contenzioso su un duplice fronte: il risarcimento economico per i danni arrecati durante l’occupazione e il rimpatrio dei beni culturali saccheggiati nel corso del nostro dominio. Nel 1970, con l’arrivo al potere di Gheddafi, il contenzioso con la Libia produsse anche una pesante ritorsione: la confisca dei beni appartenuti agli italiani residenti e l’immediata espulsione dei ventimila ancora rimasti. Se nel processo di costruzione della nazione libica il mito anti-italiano ne divenne il fattore unificante, per l’Italia fu la partenza degli ultimi coloni a chiudere in modo definitivo quel capitolo della sua Storia.

I rapporti con le ex colonie

Nei decenni a seguire la Repubblica tentò in tutti i modi di sminuire e di non farsi carico delle proprie responsabilità coloniali. Nel quadro di rapporti altalenanti, pur continuando la Libia a chiedere risarcimenti per i danni morali e materiali dell’occupazione, si infittirono i rapporti economici, sulla scorta di importanti accordi concernenti le forniture petrolifere.

Si arrivò al 1998 prima di sbloccare l’empasse; una dichiarazione comune introdusse anche il tema della restituzione dei beni culturali ed archeologici. La questione non aveva avuto il rilievo assunto nei rapporti post-coloniali con l’Etiopia, in primo luogo intorno alla restituzione dell’obelisco di Axum, rimosso solo nel 2002 nella capitale (dalla piazza di Porta Capena). Assai più complicata si rivelò la restituzione della pregiata Venere di Cirene, la statua già saccheggiata nel 1913 e conservata presso il Museo nazionale di Roma.

Se Gheddafi la richiese fin dal 1989, vincendo le resistenze di chi riteneva il rimpatrio un fatto che andava a sminuire l’onore nazionale, la statua fu infine riconsegnata alla Libia solo nel settembre 2008. E del resto il discorso intorno al patrimonio libico è stato rilanciato in seguito alla guerra civile del 2011 nel paese e alla fine del regime di Gheddafi.

Nei diversi passaggi registrati dalle relazioni politico-istituzionali tra l’Italia ed i paesi ex coloniali non si è mai registrato un serio tentativo di accompagnarne gli effetti attraverso una critica e avvertita conoscenza della nostra storia coloniale e delle sue perduranti eredità. La stessa enunciazione di un indistinto e pur evocativo Piano Mattei, grazie a cui prospettare una differente cooperazione tra i paesi africani e l’Italia (e con essa l’Europa tutta) non riesce a dissolvere la pervasiva sensazione di una strumentalità storico-culturale ancor prima che politica: sempre in ragione, oltre ai condizionamenti del contesto globale, di una mancata assunzione di responsabilità su amnesie e colpe dell’Italia postcoloniale. Sono invece molteplici le suggestioni grazie a cui sviluppare una critica e partecipata conoscenza storica, allo scopo di decostruire il paradigma nazionalista e di sviluppare altresì una “reciprocità di sguardi” sul piano anche socio-culturale tra i campi di osservazione italiano e quelli dei popoli africani già colonizzati.

Costruire la nuova memoria

Negli anni più recenti, di fronte all’impatto dell’immigrazione di massa dall’Africa – spesso dai paesi delle nostre ex colonie – abbiamo assistito a manifestazioni di xenofobia e razzismo che riflettevano proprio la scarsa o poca conoscenza del passato coloniale dell’Italia.

Quando non si tratta di malcelata nostalgia neofascista: come nel caso del sacrario eretto a l’11 agosto 2012 nel comune laziale di Affile in onore di Rodolfo Graziani, le cui azioni criminali nelle guerre coloniali gli studi storici hanno ampiamente documentato; tra le altre cose, ancor prima delle sanguinose rappresaglie condotte in Etiopia nel 1937, anche come governatore della Cirenaica nel 1930-31, gli anni delle deportazioni di massa nelle isole carcerarie di Ustica, Tremiti, Favignana, Egadi e Ponza.

Sono domande e percorsi di ricerca che alludono alla storia e alla risignificazione tanto dei monumenti coloniali quanto dell’odonomastica urbana. Fin dalle prime imprese degli anni Ottanta nel secolo XIX, la toponomastica divenne l’occasione per una rappresentazione della nazione attraverso la sua dimensione coloniale. Nella capitale, per fare un esempio, con la piazza dedicata ai caduti di Dogali davanti alla Stazione Termini.

Basti ricordare qui il caso di Bologna, una delle prime città ad annoverare un quartiere “libico” (fin dal 1913) con altrettante denominazioni coloniali. Quel retaggio fu disvelato e risignificato nel 1949 dal sindaco comunista Giuseppe Dozza, con la soppressione di tutti gli odonomi coloniali (con l’eccezione di via Libia, per gli altri valse l’indicazione “già via”) e la loro sostituzione con il nome di caduti della Resistenza.

È stato sull’onda di quella ridestata memoria pubblica che nel 2015 sorse un gruppo di volontari denominato “Resistenze in Cirenaica”, fulcro di una ramificata Federazione delle Resistenze, presente in numerosi città e le cui pratiche di cittadinanza attiva si stanno rivelando un contagioso antidoto culturale e civico contro le persistenze dissimulate del nostro colonialismo.

Un esempio e un incentivo a “fare storia” pubblica attraverso il concorso dei cittadini.

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