Il 22 giugno del 2010, lo statunitense John Isner e il francese Nicolas Mahut scesero sul campo 18 di Wimbledon e giocarono la partita più lunga della storia: tra sospensioni per la poca visibilità e problemi ai computer IBM, Isner e Mahut giocarono per tre giorni.

Lo scrittore Sandro Veronesi racconta questa partita nel podcast Gravity confrontando i movimenti dei tennisti con ciò che accade in quei giorni fuori dal campo, come se in quelle ore fosse avvenuto una sorta di miracolo: tutta la realtà era racchiusa in quel campo, in una dimensione temporale inedita, differente da ciò che rimane fuori da quelle righe che segnano anche i confini di un mondo.

Un miracolo che lo sport in certi momenti offre dilatando la percezione della realtà, un farmaco multiforme che improvvisamente può avvicinare alla redenzione o preparare una lenta e inesorabile discesa nell’abisso. E se questo è vero per molti sport, lo è forse ancor di più per gli sport “di racchetta”, naturalmente fondati sulla solitudine del giocatore, durante il match e gli allenamenti, una forma eroica di resistenza solipsistica, di ripiegamento in sé stessi.

Lo sport si può fare quindi catalizzatore di sentimenti ed emozioni ed è quello che accade nell’esordio di Chetna Maroo, nata in Kenya ma residente a Londra, che mette al centro della formazione della sua protagonista un’esperienza sportiva totalizzante, che parte dalla necessità di riempire un vuoto e che poi si trasforma in una necessità, una chiave per affrontare il mondo.

T si intitola il romanzo di Maroo (Adelphi, traduzione di Gioia Guerzoni) dal nome con cui viene comunemente indicata la zona centrale del campo da squash, lo sport di “racchetta” che innerva la storia di questo libro e che finisce per riempire l’esistenza delle tre sorelle che in un’Inghilterra di fine anni Ottanta cercano di combattere il lutto per la prematura morte della madre.

Dare un ritmo

T inizia pochi giorni dopo il funerale della madre di Gopi, Khush e Mona, con la presa di coscienza del padre (anche su spinta di zia Ranjan, che, come dice Khush, «ha paura di noi perché non sa cosa pensiamo») della necessità per le figlie di qualcosa che dia un ritmo e una disciplina alla loro vita, lo squash appunto, che avrà ricadute diverse sulle tre sorelle.

Solo una di loro, la più piccola, Gopi, migliora sempre di più e pian piano comincia a vedere la sua vita attraverso il filtro del campo da gioco dove passa sempre più ore e dove, proprio nella solitudine del giocatore che scaglia la palla contro il muro, conosce sé stessa, i suoi sentimenti e le persone che le stanno attorno: «Quando sei in campo – pensa mentre si allena a Western Lane, vicino Londra –, durante una partita, in un certo senso sei solo. Ed è così che dovrebbe essere. Devi trovare una via d’uscita. Devi scegliere i colpi e crearti lo spazio di cui hai bisogno. Devi difendere la T. Nessuno può aiutarti. Nessuno può concentrarsi per te o aver paura di perdere al posto tuo».

Dentro al turbinio

L’andamento della storia segue un ritmo regolare e offre un frammento della vita di Gopi, una sorta di Bildungsroman in miniatura che inizia con la tragedia per la morte della madre e giunge fino alla ricerca del successo sportivo, passando per il tentativo di rinascita e scoperta di sé che si compie attraverso lo sport.

Ciò che distingue T dagli standard stereotipati delle storie di successo sportivo è la scrittura di Maroo che con la sua densità nel definire gli argomenti (in un gioco di opposizione dove al movimento frenetico dello squash si contrappone la posatezza della scrittura) genera pagine ficcanti dove i sentimenti di Gopi emergono dal marasma di emozioni che abitano la sua vita di ragazza (dal lutto all’innamoramento, dall’affetto per il padre al desiderio di vittoria sul campo), in un turbinio che è specchio fedele di un animo genuinamente altalenante.

Perché alla fine T è un romanzo che ruota attorno alle possibilità di comunicare i propri stati d’animo, alle vie che consentono di dialogare anche nei momenti più complessi dell’esistenza, come succede alla famiglia di Gopi, alle tre sorelle e a un padre che deve trovare il coraggio, davanti a loro, di mostrarsi vulnerabile e, anche grazie a loro, di immaginare un futuro.

Esperienze rivelatrici

Il rapporto tra Gopi e il padre detta l’andamento del romanzo, con i due che si scoprono piano piano, con la responsabilità immensa che Gopi sente nei suoi confronti perché promettente nello sport che lui ha scelto per loro (come avverte che lui desidera per suo tramite l’impossibile, la guarigione dal dolore) e con l’unione che vivono guardando a ripetizione cassette di incontri di campioni pakistani o simulando i movimenti della partita in una sorta di silenziosa danza a due.

Al dolore di un’assenza, suggerisce T, nessuno risponde allo stesso modo, c’è chi si rifugia nel gujarati che parlava la mamma che non c’è più, lingua originaria dei suoi pensieri in opposizione all’inglese acquisito («Noi il gujarati non lo sapevamo così bene. Ecco perché ascoltavamo mamma con tanta attenzione e non le staccavamo gli occhi di dosso. Ecco, forse, perché le stavamo appiccicate, perché cercavamo continuamente il contatto fisico»), chi come Mona spende i suoi primi soldi per regalare una nuova racchetta a Gopi, come se volesse esser partecipe di un sogno che può riunire una famiglia che rischia di spezzarsi, chi come il padre sembra in commovente contatto con la madre («Cominciammo a riconoscere la presenza di mamma in casa non per esperienza diretta, ma osservando papà. Gli brillavano gli occhi. Guardava qualcosa e noi sapevamo che la sua attenzione era rivolta a lei, che la stava ascoltando») o appunto Gopi che vive una serie di esperienze che le fanno conoscere, pian piano, cosa significhi innamorarsi o come si possa prendere coscienza del proprio corpo senza una mamma, una guida, che la aiuti.

E poi c’è, ovviamente, lo squash, la necessità di trovare colpi che rispondono ai bisogni del momento, la possibilità di intuire in anticipo cosa accadrà o di andare oltre ai propri limiti, epifenomeni sul campo delle sfide, impari, che la vita propone.

Cosa sarà passato nelle menti di Isner e Mahut nelle oltre undici ore effettive del loro incontro? Quanti cedimenti e quanti riscosse si saranno succedute? Saranno mai riusciti a isolarsi dal mondo attorno a loro e annullarsi, completamente, dentro la partita?

«Un bel tiro può fermare il tempo. A volte è l’unica cosa che può farti sentire in pace» pensa durante uno dei suoi allenamenti Gopi, che scoprirà sul campo che quando tutto sembra attratto dalla dissoluzione, improvvisamente può giungere un’esperienza straordinaria e rivelatrice: «Ora che ero dentro, avevo la sensazione che le pareti, l’intera struttura, esistessero al di fuori del tempo. Lì nessuno mi metteva fretta, se volevo potevo pensare».


T (Adelphi 2024, pp. 148, euro 18) è un romanzo della scrittrice Chetna Maroo

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