Il nostro paese è diventato il regno della querela per diffamazione. Ecco tre casi fra moltissimi. Luciano Canfora è stato querelato da Giorgia Meloni perché nel 2022 l’aveva definita «poveretta», «mentecatta» e «neonazista nell’animo». Su Facebook Loredana Lipperini ha commentato un articolo di Gianni Bonina, uscito il 31 marzo scorso su Doppiozero: l’articolo sostiene che nei gusti dei lettori ormai trionfa il genere del romance e che questo genere è tipicamente femminile, facendo una lista molto lunga ed eterogenea di autrici.

Lipperini scrive che l’articolo è «livoroso e disinformato». Secondo quanto detto, sempre su Facebook, dalla stessa Lipperini, Bonina ha minacciato querela. Donatella Di Cesare è stata querelata da Francesco Lollobrigida, da lei definito «neohitleriano» alla luce delle parole che il ministro aveva detto sulla cosiddetta “sostituzione etnica” al congresso Cisal il 18 aprile 2023. Delle molte querele contro i giornalisti di questo e altri giornali è inutile parlare. Un elenco parziale delle molte querele di Meloni e dei suoi colleghi di governo compare in un appello a favore di Canfora pubblicato il 9 aprile su Libération, e firmato da molti.

Non ho le competenze per cogliere gli aspetti giuridici. M’interessano di più i presupposti filosofici impliciti. Chi querela non può non pensare che esista una verità che il querelato ha mancato di riferire o ha addirittura falsificato. Il ragionamento è questo: io non sono una neonazista («mai manifestato simpatie neonaziste», pare abbia detto Meloni) o un neohitleriano, io non ho scritto un articolo livoroso, tu dici che lo sono, tu dici che l’ho fatto. Così facendo, induci chi ti ascolta a credere qualcosa di falso e di offensivo su di me, e io, per difendere la mia reputazione lesa, ti chiedo conto e risarcimento, facendo appello al potere giudiziario.

Che la verità in tutto questo c’entri molto è evidente, per esempio, nella tesi espressa da Tito Boeri e Roberto Perotti in un articolo del 2 aprile scorso su Repubblica. Secondo Boeri e Perotti, nel pronunciare giudizi esagerati su Giorgia Meloni usando con molta libertà la parola “neonazista”, Canfora lederebbe la credibilità degli storici, e questo farebbero anche i suoi molti sostenitori, per esempio i firmatari dell’appello su Libération.

Quest’atteggiamento è pericoloso, sostengono ancora Boeri e Perotti, perché ci priva dell’arma del rigore contro i tentativi di «riscrivere la storia del nostro paese, proponendo una narrazione del Ventennio in chiave nostalgica, che cerca di far passare un regime dittatoriale, fallimentare e cialtronesco per un esempio di modernità e di progresso economico e sociale».

È indicativo, in queste parole, l’uso del termine «narrazione». Il revisionismo è una narrazione che stravolge la verità storica effettiva. Per contrastarlo, bisogna difendere credibilmente la verità, non proporre contronarrazioni altrettanto campate in aria. Però, e qui sta il punto interessante, chi propone le narrazioni revisioniste vuole che siano intese come verità. E se gli si dice che non lo sono, allora reagisce con la stessa moneta usata dal presunto diffamatore. Anzi, rincara la dose appellandosi a un giudice perché ristabilisca la verità dei fatti rendendola verità giudiziaria.

Lo stesso gioco

Meloni avrebbe potuto continuare a esercitare il potere di revisionare la storia che la sua posizione le dà – il potere i cui pericolosi effetti sono paventati da Boeri e Perotti – senza curarsi di Canfora. Così Lollobrigida. Bonina avrebbe potuto fare spallucce, consolandosi della sede prestigiosa in cui la sua rappresentazione del canone della scrittura femminile è comparsa.

Invece, no: chi sporge querela contrappone verità a verità, facendo lo stesso gioco del querelato. E questo non nel campo delle scienze cosiddette dure, cioè delle scienze della natura, ma nell’area ben più complicata delle scienze umane.

Le controversie fra Meloni e Canfora, fra Lollobrigida e Di Cesare e fra Bonina e Lipperini presuppongono una fiducia nei “fatti” storici e letterari, fatti evidenti e accertabili, che non possono essere piegati dalla potenza di una narrazione egemone. Sostenendo di non essere neonazista, Meloni implicitamente ammette che il nazismo esiste e che è cosa esecrabile. È un primo passo. Anche se poi ovviamente Meloni proverà a distinguere il nazismo dal fascismo: esecrabile il primo, con aspetti accettabili il secondo.

Il 25 aprile

Se il discorso si sposta sul piano della verità, forse la credibilità dello storico rimane intatta nonostante tutto. E si può pure fare un passo ulteriore. Se ci sono fatti storici accertati, allora bisogna rispettarli, chi li nega mente e la sua menzogna ha effetti dannosi, per esempio sulle vittime e i loro eredi. Per esempio, la partecipazione dei fascisti all’eccidio delle Fosse Ardeatine è un fatto accertato.

Un fatto su cui Meloni ha taciuto, come sappiamo. Che il 25 aprile segni la liberazione dall’invasione nazi-fascista, pure, è un fatto accertato. Pur riconoscendo molti punti delle ricostruzioni storiche più accreditate, in una lettera al Corriere della Sera dell’anno scorso Meloni ha parlato del 25 aprile come mera «festa della libertà». Vedremo che cosa dirà fra pochi giorni, quest’anno.

Gli eredi delle vittime delle Fosse Ardeatine e quelli di chi combatté per la liberazione dell’Italia potrebbero sentirsi urtati dalle omissioni di Meloni, proprio come Meloni medesima dalle parole di Canfora. Se esiste la querela, e se ne può fare un uso così strumentale, perché non prevedere un reato di negazionismo storico a disposizione di chi si senta colpito da facili revisionismi?

La libertà di parola non è parole in libertà, ammoniscono Boeri e Perotti. Questo dovrebbe valere soprattutto per chi ha un enorme potere politico. E forse limitare il potere di narrazione fraudolenta di chi ha potere è necessario per salvare la libertà di pensiero dei cittadini comuni e degli intellettuali. Guardare la pagliuzza nell’occhio di Canfora non dovrebbe distrarre dalla trave che acceca Meloni e i suoi compagni di battaglie culturali.

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