Il 2024 potrebbe aprirsi con la guerra regionale in Medio Oriente. Il conflitto a Gaza rischia di allargarsi dopo l’uccisione del generale iraniano Razi Mousavi da parte di Israele e lo strano attentato al cimitero di Kerman in Iran che ha causato oltre 100 morti. È un azzardo: Benjamin Netanyahu spinge il suo paese nel vicolo cieco dell’opzione militare perché sa che è l’unica possibilità per lui di restare in sella. Chi lo affianca nel gabinetto di guerra e che potrebbe sostituirlo, come Benny Ganz o Yoav Gallant, non riesce ancora a scalzare (e c’è il timore che forse a questo punto non voglia nemmeno più) il premier contestato.

Israele si sta rassegnando al conflitto: ragioni di politica interna israeliana stanno sprofondando l’interno Mediterraneo orientale verso l’abisso. Non è una novità: dall’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 la politica israeliana è caduta sostanzialmente ostaggio dall’estrema destra dei partiti messianici e delle organizzazioni dei coloni. Netanyahu ha condotto il Likud su tale linea. Per costoro non c’è altra soluzione al conflitto se non che l’Israele storico combaci con lo stato moderno.

Ma ora c’è un rischio in più: non si tratta di un’ennesima guerra arabo-israeliana. C’è di mezzo l’Iran che promette una lunga vendetta e che è difficile da contrastare. Non ci si deve ingannare: si tratta di un paese forte con una robusta statualità e un patriottismo vigoroso, basati su una tradizione imperiale millenaria.

Gli iraniani daranno filo da torcere a chiunque anche perché nei trascorsi decenni hanno costruito solide basi avanzate (l’arco sciita): Hezbollah in Libano, gli alleati Huti in Yemen, le milizie filoiraniane in Siria e quelle sciite in Iraq. Probabile che sia proprio quest’ultimo il teatro più immediato dello scontro: trascinerebbe anche gli Usa in una guerra diretta che Washington non potrebbe evitare.

È ciò che spera Hamas ma è anche ciò che vuole Netanyahu per mantenersi, come scrive Thomas Friedman sul New York Times: i due estremi si toccano. Come pessimo risultato delle varie “guerre del Golfo”, l’Iraq è diviso tra influenza iraniana (crescente) e americana (che resiste a stento).

La coabitazione è difficile ma fino ad oggi ha retto malgrado l’uccisione del generale Kasem Soleimani da parte americana (per decisione di Trump). Quest’ultimo colpo contro i guardiani della rivoluzione non potrà essere condonato, proprio perché inferto da Israele. È probabile che l’Iran provochi un aumento della tensione contro gli Usa in Iraq, prima di preparare una rappresaglia contro Israele stessa, con il supporto di Hezbollah. Colpirà a freddo senza farsi trascinare dall’impulso come fanno altri.

La conduzione della guerra di Israele a Gaza è senza strategia se non quella dell’annientamento, illudendosi che i due milioni di palestinesi svaniscano nel nulla. Ciò è logicamente impossibile e non si può nemmeno ottenerlo per gli altri tre milioni di palestinesi della West Bank. Di conseguenza è guerra senza limiti, accettandone tutti i rischi.

La risposta dell’estrema destra israeliana ad ogni critica è sempre la stessa: non ci sono più ebrei nei paesi arabi perché sono stati espulsi, quindi anche noi espelliamo i palestinesi dall’unica terra dove ci sentiamo al sicuro, che è anche “teologicamente” nostra (gli abusivi sono i palestinesi). La visione è quella di un’apartheid che dovrebbe concludere ciò che fu iniziato nel 1948-49 ma non fu portato a termine nel ‘67, quando – sempre a detta dell’estrema destra israeliana – non si colse ’occasione di occupare anche il monte del tempio e distruggere le moschee.

Specularmente è simile a ciò che pensano gli estremisti di Hamas o della Jihad islamica: dal Giordano al mare la terra è loro (inclusa Gerusalemme e l’Haram al Sharif) e sono gli “ebrei usurpatori” a doversene andare. Ostaggio di tale muro contro muro sono le comunità ebraiche all’estero, ad esempio in Europa dove si trovano a confronto con collettività arabo-musulmane sempre più cospicue a causa dell’immigrazione e istintivamente schierate con i palestinesi. In tal modo l’Europa rischia di importare le tensioni (e le diatribe teologiche) del Medio Oriente.

C’è inoltre da chiedersi cosa potrebbe fare la Russia, militarmente presente in Siria in alleanza con l’Iran ma esclusa dai tentativi di soluzione mediorientale, mentre fino a George W. Bush era sempre stata coinvolta. Per Mosca è certamente l’occasione di aprire un altro fronte anti occidentale, attirandosi la simpatia di buona parte del mondo islamico.

L’intreccio tra una crisi allargata in Medio Oriente e quella attuale del Mar Rosso mostra tutta la gravità della situazione. L’unico modo per bloccare tale deriva violenta è di fermare immediatamente la guerra a Gaza, cambiare subito premier israeliano e tentare una ripresa di negoziato senza esclusioni.

A Ramallah i palestinesi si sono messi d’accordo per un governo di unità che includa tutte le tendenze mediante figure indipendenti. Netanyahu ha rifiutato ma è l’unica via di uscita prima del disastro. Sempre che Teheran si fermi ancora una volta.

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