Il Mister Paolucci veniva al campo con una Ritmo gialla. L’adesivo sulle fiancate era “Zurigo 27 Roma Taxi” ma non ne sono sicuro. Però ricordo bene che aveva almeno il triplo della mia età – avevo 14 anni – e che nei Giovanissimi della Smit Trastevere, che allenava con orgoglio, non mi faceva giocare. Peggio, mi faceva entrare dalla panchina. Sempre. Dopo una svogliata stagione, smisi. Anni dopo lo incontro per caso: «Gereme’, do’ giochi adesso?».

«Ho smesso, mister».

«Smesso? Uno dei più forti centrocampisti che abbia mai allenato...».

«Scherza, vero? Per giocare dovevo pregarla ogni domenica».

Lui inclina il collo e con serietà: «Dovevi crescere… avevi bisogno di meritartelo…».

Inclino il collo anche io. Forse è stato giusto così.

Una mia amica sceneggiatrice sostiene che la via per l’inferno è lastricata di avverbi, e quel “forse” deve aver avuto il suo diabolico potere se ancora oggi, che ho più anni di quanti ne avesse Paolucci all’epoca, ci penso. Senza rammarico né rimpianto, tutt’altro. Con un sarcastico e concreto cinismo che mi porta a voler raccontare storie: perché le cose, se uno non le capisce fino in fondo, le racconta. E io lo faccio con le persone, e con le immagini.

Il regista Paolo Geremei con Marcello Lippi

I sacrifici e i fallimenti

Ho potuto vivere l’amore struggente, perché non corrisposto, di tre ragazzi. Ho respirato la delusione stazionate di tre diciassettenni che col pallone facevano quello che volevano, tra i piedi e con le mani, ma che hanno inciampato su dei sassi invisibili, inattesi. Tre sassi uno diverso dall’altro, violentemente spietati. Puoi avere i riflessi migliori di tutti ma serve a poco se non hai tenacia, forza, costanza, umiltà, determinazione, lungimiranza. Devi averle tutte queste qualità per poterti rialzare e sopravvivere, nessuna esclusa, e se non ce le hai finisce che piano piano scivoli, resti dietro e si scordano di te.

A nessuno piace essere scordato, soprattutto se per quell’amore hai sacrificato le gite con i compagni e i cornetti di notte, le serate in discoteca e le sigarette clandestine. Non ti vuole più, quella stronza. Ma tu sei quello che di notte ha sognato di parare un rigore a Baggio ed è franato sul comodino; sei quello che adesso se ne frega, e la ama ancora.

È un mattina gelida di marzo, dieci ragazzi con sindrome di down stanno giocando a calcetto, bianchi contro neri. Nella scena che giriamo tra poco, Ermanno, il capitano dei bianchi, deve segnare il rigore decisivo e i compagni abbracciarlo, mentre i neri dovranno dimostrare sconforto e delusione.

Dovere, però, è un verbo scomodo. Ogni volta che Ermanno segna, i neri mostrano i loro volti tristi. Tutti tranne uno, Mattia, che esulta. Rigiro la scena più volte, cercando di fare capire al ragazzo che è un film, e che lui deve essere arrabbiato perché la sua squadra ha perso. Molto arrabbiato. Tutto chiaro, rigiriamo la scena e Mattia, al gol, non esulta: va direttamente ad abbracciare Ermanno, gli stringe la testa col braccio, ridendo fortissimo. Mi avvicino, Mattia sa che qualcosa me la deve dire: «Daniele è mio amico, lui è contento se fa goal. Se è felice, io sono felice. Non ce la faccio».

Quello di Mattia non è il capriccio di un ragazzo testardo, è lo specchio che convoglia e riflette tutte le emozioni che prova quando gli allacciano gli scarpini, quando fa rimbalzare il pallone, quando si abbraccia scompostamente coi suoi compagni. Provaci tu, a non far riflettere l’emozione su uno specchio liscio.

La testata di Zizou

Il regista Paolo Geremei con Zinédine Zidane

È per avvicinarmi a provare questo genere di sensazioni che mi lascio ispirare dal calcio. A Madrid, Zidane mi spiega con quali sensazioni è arrivato a quella finale diciotto anni fa - consapevole che quella contro l’Italia sarebbe stata l’ultima partita della sua carriera.

«Ci ho messo tutto me stesso… forse anche troppo» confida sorridendo. Consapevole, adesso come allora, che ha fatto proprio quello che non doveva fare, è stato scorretto, insomma ha fatto una bella cazzata. Eppure, in quel sorriso che gli rende – se possibile – gli occhi ancor più sinceri, si legge benissimo il respiro vitale di quel cartellino rosso. Lo rifarebbe. Zizou sbaglierebbe ancora, ne sono certo. E sono felice, perché so che ho davanti a me un essere raro, a tratti divino, che sento vicinissimo e terreno.

Che miracolo, quel cartellino rosso, così divino e così umano. Che miracolo, quella notte.

Paolo Geremei è con Simone Herbert Paragnani il regista di Adesso vinco io, documentario su Marcello Lippi, una produzione On Production e Master Five Cinematografica con Rai Cinema, in sala 26, 27 e 28 febbraio. Geremei ha dedicato al calcio i seguenti lavori: Zero a zero (2013, documentario), Chi lo tira? (2015, cortometraggio), Prima dell'ultima (2017, documentario), Contropiede (2018, spot),  Napoli prima (2023, documentario), Adesso vinco io - Marcello Lippi (documentario)

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