«Ho perso amici, parenti, per le mie posizioni», dice uno degli oltre 80 intervistati del documentario Israelism. Chi parla è un ex veterano dell’Idf, l’esercito israeliano, dopo il congedo ha iniziato a mettere in discussione tutto il suo servizio e tutte le cose che gli avevano insegnato sui palestinesi e la loro presenza in quella regione.

È la storia che viene ripetuta più spesso dai molti ebrei americani che appaiono nel film di due registi dalle stesse origini, Erin Axelman e Sam Eilertsen, a loro volta testimoni di questa trasformazione: vedere i palestinesi come persone, come legittimi abitanti della Cisgiordania e di Gaza, vedere le politiche israeliane come razziste e autoritarie.

A fare da filo conduttore, la testimonianza di Simone Zimmerman cofondatrice di “IfNotNow”, letteralmente “Se non ora [quando]”, che a noi italiani richiama alcuni gruppi femministi, ma entrambi hanno preso questa frase da un noto aforisma del rabbino Hillel. L’associazione di Zimmerman si occupa dei diritti dei palestinesi da dieci anni: lotta contro l’occupazione e di recente ha denunciato come la potente American Israel Public Affairs Committee (Aipac) abbia sostenuto diverse decine di candidati repubblicani che hanno parlato favorevolmente dell’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio del 2021.

È lungo questa linea di faglia che si gioca un pezzo importante del futuro della comunità ebraica in America, anche su base generazionale. La maggior parte degli ebrei – americani non vuole più che gli Usa sostengano militarmente Israele – che riceve circa 3,8 miliardi di dollari l’anno in aiuti militari da Washington – o per lo meno vuole che quel sostegno non sia impiegato nell’occupazione militare della Cisgiordania.

Del resto Joe Biden se ne sta accorgendo durante le primarie: la sua nomination non è in discussione, ma le percentuali di voti “uncommitted” (nessuna preferenza, nessun impegno per i delegati) nelle schede è insolitamente alta, centinaia di migliaia di (non) voti.

Finora tra il 4 e il 13 per cento, con punte del 29 per cento in stati largamente democratici come le Hawaii, o del 19 per cento in Minnesota. Il fatto che la maggioranza non sia più d’accordo con un sostegno incondizionato, o che soprattutto i millennial siano i più critici, non impedisce l’esistenza di un forte campo conservatore che porta soldi, e che si occupa di portare avanti una agenda “ideologica” a sostegno di Israele nei campus americani o nelle scuole ebraiche negli Stati Uniti.

La presenza dell’esercito

Simone Zimmerman nel film ricorda gli anni delle scuole dell’infanzia e delle elementari, quando le facevano disegnare una mappa di Israele che non contemplava l’esistenza di uno stato palestinese. La stessa immagine che Netanyahu ha mostrato nel settembre del 2023 all’Onu mentre descriveva gli effetti positivi degli Accordi di Abramo e dell’attesa firma da parte dei sauditi, poco prima del tragico 7 ottobre.

Zimmerman spiega di come Israele venga raccontato come un paese disabitato, in cui gli ebrei sono tornati dopo la Seconda guerra mondiale, in cui non si parla di popolazioni autoctone, non si parla dei palestinesi se non per mettere in guardia: «Ti uccideranno se vai lì». L’altro aspetto che emerge dai racconti del documentario Israelism è la presenza dell’esercito nell’educazione degli ebrei che – col contributo economico di programmi come Birthright – vanno a fare visita a Israele specialmente negli anni del liceo o prima dell’università. Giochi militari durante i soggiorni, incontro coi militari e la loro esaltazione ne i raduni.

Solo tra gli ebrei americani ogni anno circa 1.200 si arruolano nell’Idf. È una presenza che non si limita all’esercito: dei 450mila coloni in Cisgiordania, oltre 60mila hanno passaporto americano. Il film è stato criticato dai conservatori, i registi ci tengono a dire: «Siamo due ebrei americani, il film racconta la storia nostra e di tanti nostri amici». Ricordano come anche «Jonathan Glazer, per le sue parole sulla Palestina è stato accusato di antisemitismo, lui che è un ebreo inglese e che ha fatto un film sulla Shoah» con cui ha vinto l’Oscar.

Le testimonianze

Micol Meghnagi, ebrea italiana, ricercatrice e attivista che ha organizzato la proiezione, ha voluto ribadire quello che lei stessa ha visto nei suoi soggiorni in Palestina. «Siamo di fronte a un regime di apartheid vero e proprio, ma non può esserci sicurezza per Israele se non c’è sicurezza e libertà per i palestinesi».

«Chi vede il sistema di colonizzazione israeliano cambia idea», ha chiosato Luisa Morgantini durante la presentazione elogiando l’esempio di gruppi come Jewish Voice for Peace: «Rappresentate quello che per noi è il giudaismo, che non è l’occupazione». Parole simili a quelle dette in chiusura del film da una rabbina a un gruppo di giovani riuniti in sinagoga: «L’ebraismo ha una lunga tradizione di liberazione, di giustizia, non dimenticatelo».

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