Bangkok – Lo abbiamo visto strisciare nei condotti di aerazione dell’astronave Nostromo. Apparire orrendamente dal torace squarciato del comandante in seconda Kane. A Bangkok, però, non ce lo aspettavamo, Alien. Invece lo xenomorfo è l’ultima conquista dell’industria cinematografica basata in Thailandia. La più prestigiosa, per quanto mostruosa: perché Alien è un’icona della storia del cinema, e il suo primo trattamento televisivo – la serie Alien – sarà interamente realizzato nel paese asiatico, allo Studio Park della capitale. È la prima volta che una grande serie di fantascienza statunitense sceglie la Thailandia per la prima stagione.

Una produzione record per un paese che, nel settore, già ne macina molti: nel 2023, secondo il ministero del Turismo, il regno avrebbe ricavato quasi 7 miliardi di baht (sui 178 milioni di euro) dalle 466 produzioni audiovisive straniere realizzate, in arrivo da 40 paesi tra cui Stati Uniti, Cina, Germania e Corea del Sud. E il governo ha annunciato di volerle ulteriormente favorire, aumentando incentivi, facilitando riprese e permessi.

Non solo Hollywood, Bollywood (India) e Chollywood (Cina), dunque: sulla mappa degli hub in cui si produce la cinematografia mondiale la Thailandia è ben piazzata e scala posizioni. «La storia comincia negli anni Ottanta. Il personale tecnico c’era già, grazie alla produzione locale, di ottima qualità ma a basso costo: questo ha creato le premesse», interviene Fred Turchetti, produttore italiano socio in Living Films, una delle compagnie di produzione cinematografica più importanti della Thailandia. «Come si diventa un hub del settore? Prendiamo Los Angeles: offre 250 giorni di sole l’anno, ha l’oceano, il deserto e le montagne, ville e grattacieli, quartieri di ricchi e quartieri di poveri… hai tutte le situazioni che ti servono, e a distanze relativamente brevi. In Thailandia succede lo stesso, puoi girare qualunque storia. In più, Bangkok ha un numero eccezionale di teatri di posa: 48, all’avanguardia. La Thailandia è competitiva per location, attrezzature e risorse umane, inoltre produrre qui costa un terzo rispetto agli Stati Uniti. C’è voluto tempo per farlo capire, però: anni fa era duro convincere che qui fosse possibile fare cinema».

Il paradiso dei produttori?

Chris Lowenstein fondò Living Films nel ’96. Americano, era andato a vivere in Thailandia a 24 anni. «All’inizio c’ero io, il mio computer e una socia thai di cui mi fidavo molto. Fuori, il Selvaggio Est, zero protocolli. Io però avevo un’idea chiara: lavorare nel cinema è super stressante, ma in un paese buddhista è diverso, tutto più rilassato. D’altro canto, l'industria americana ha standard elevati, ottima gestione dei costi e suddivisione dei reparti di un film, approccio alle riprese. Ci ho visto un’opportunità: lavorare qui a livelli americani. Ho cominciato da solo, poi sono arrivati dei partner. Siamo riusciti a diventare la principale società di produzione, ma ho cercato di non diventare troppo grande: io voglio poter dare il mio tocco su tutto. Questo è un ottimo posto per mettersi alla prova».
Al mondo ne esistono pochi altri, spiega Turchetti. Uno è il Sudafrica: mare, deserto, montagne, foreste e molti attori. Poi l'Argentina, con città dall’aspetto europeo ma nell’emisfero australe: quando è inverno in Europa lì è estate. In Europa è competitiva soprattutto la Cechia: grandi strutture produttive eredità del passato comunista, personale tecnico-artistico a bassi costi.

La convenienza ovviamente è fondamentale, oltre a studi e teatri per i set, infrastrutture e location. «Produrre in Thailandia è economico. La costruzione di edifici e set, il costo della manodopera, è circa il 15 per cento di quella di altri Paesi», dettaglia Lowenstein. «Il personale tecnico thai, la troupe, chi si occupa di luci e riprese, costa tra il 30 per cento e il 20 per cento dell’equivalente in Occidente».

Il paradiso dei produttori? No, commenta Turchetti, che lamenta una burocrazia farraginosa. «Eppure un film medio porta nel paese circa 20 milioni di dollari, che vanno in stipendi e servizi thailandesi. Una produzione cinematografica ne promuove altre, alberghi, noleggiatori di materiale, teatri di posa: denaro che si redistribuisce. Il cinema porta talmente tanto indotto che sempre più paesi offrono incentivi a chi va da loro a produrre. Il “tax rebate” in Thailandia è del 15 per cento, altri offrono il 25-30 per cento, la Malesia il 35. Resta il fatto che girare in Thailandia, comunque, costa un terzo».

Il cinema nazionale

Non per niente Living Films produce anche serie, pubblicità, documentari. Ha in portfolio Bangkok Dangerous con Nicolas Cage, Tár con Cate Blanchett, Tredici Vite di Ron Howard, The Serpent. «Quando facemmo Una notte da leoni 2, con Bradley Cooper e Paul Giamatti, tutti scoprirono la Thailandia. Da cosiddetto terzo mondo divenne primo in un attimo», ricorda Fred. «Ormai ricevo una sceneggiatura a settimana, e devo dire di no alla maggior parte», conferma Lowenstein. «Posso scegliere. Mi piacerebbe produrre cinema italiano, ho amato tanto i film neorealisti quando studiavo in Italia. Sto aspettando che quel tipo di cinema torni, e mi mandi una sceneggiatura».
E la produzione nazionale thailandese? Quante possibilità ha di affermarsi sul mercato internazionale? Ancora non molte, secondo i due partner. La qualità della scrittura delle storie lascia a desiderare – forse a causa di un sistema scolastico che non stimola il pensiero critico, ipotizza Turchetti. «In una serie vogliamo vedere gli archi narrativi di tutti i personaggi fino in fondo, ma qui spesso sono un po’ piatti. Ho passato un anno a tentare di sviluppare una serie thai per Netflix, lezione utile: dovessi rifarlo, vorrei con me scrittori thai emigrati in Occidente», dice Lowenstein.

Secondo Kong Rithdee, critico e regista thailandese, il potenziale c’è, ma perché il cinema nazionale si imponga all’estero serviranno almeno 10-15 anni. «Bisogna educare le nuove generazioni, far crescere culturalmente un pubblico nazionale. Abbiamo già talenti: Nawaphol Thamrongrattanarit, Banjong Pisanthanakul, Kongdej Jaturanrasamee sono famosi oltre confine, le serie tv Boys Love sono di culto dall’America Latina al Giappone. Una vera forma di soft power thailandese».

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