In risposta all’approvazione da parte dell’Università di Trento di un regolamento d’ateneo in cui si legge «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone» (titolo 1, art. 1, comma 5), è stata lanciata su Change.org una petizione di cui chi scrive è il promotore.

La petizione, firmata da una cinquantina di docenti universitari ordinari di varia provenienza e formazione (linguisti, storici, letterati, filosofi, giuristi, scienziati, ecc.), si chiude così: «I sottoscritti si rivolgono al governo e ai ministeri più direttamente interessati (il ministero dell’Università e della ricerca, il ministero dell’Istruzione e del merito, il ministero della Pubblica amministrazione) perché esprimano un parere sulle linee guida approvate dal consiglio di amministrazione dell’Università di Trento, e chiedono al rettore e ai competenti organi dell’ateneo tridentino di rimettere mano al regolamento appena varato relativamente alle soluzioni “inclusive” adottate. Tali soluzioni, sia pure al momento applicate (“sperimentalmente”) solo alla nuova edizione del regolamento suddetto, nonché contraddire le stesse linee guida adottate dall'Università di Trento nel 2017, e tuttora vigenti, sono contrarie al buonsenso e avverse al senso comune linguistico e alla declinazione pubblica e istituzionale dell’italiano, che in questa sua specifica funzione deve rispondere alle esigenze di tutta la comunità nazionale e porsi perciò al suo servizio».

Tra le reazioni alla petizione non è passato inosservato un post su X di Tomaso Montanari, anche lui magnifico rettore (dell’Università per stranieri di Siena), che ha scritto: «Si può pensare quello che si vuole della decisione dell’Università di Trento di riscrivere il proprio regolamento utilizzando un femminile sovraesteso al posto del maschile universale che abbiamo ereditato da una società dominata dai maschi. Ma qualunque cosa si pensi, è scandaloso che studiose e studiosi invochino i gendarmi per una infrazione linguistica. Ed è sempre e comunque osceno chiedere una censura del governo contro una libera decisione di una libera università. […] Nel 1910, Luigi Einaudi si scagliava contro il giuramento che si voleva imporre ai professori universitari (un giuramento da cui sarebbe poi disceso quello fascista del 1931), e scriveva che a ogni intervento politico contro l’assoluta libertà dei professori si sarebbero opposti “gli scienziati veri, i quali sanno che l’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti”».

È riscontrabile più d’una “disattenzione” – tra forzature interpretative ed errori di prospettiva – nel post di Montanari:

1) nessuno ha chiesto l’intervento della gendarmeria di governo sull’improvvida decisione dell’Università di Trento, bensì un parere istituzionale su scelte linguistiche sperimentate nel contesto, sempre istituzionale, in cui trova ovvia collocazione un regolamento d’ateneo;

2) l’autonomia universitaria non implica la libertà di manomettere a proprio piacimento l’italiano nei suoi usi pubblici, e poiché il “femminile sovraesteso”, nella sua marcatezza morfologica, può riferirsi solo a persone di genere femminile, laddove non vale il contrario (il genere maschile è sovraesteso in partenza), nessuno può pensare di riferirsi con rettrice, professoressa o studentessa a individui di genere maschile;

3) non si capisce cosa c’entri la “libertà dei professori”, e tantomeno il paventato giuramento accademico (in odor di fascismo), con una decisione affidata, dalla governance di un ateneo, alle risoluzioni di una Commissione incaricata allo scopo.

Il rettore dell’Università di Trento ha ragione nel ritenere improponibile un testo scritto in questo modo: «La facoltà di scelta di una varietà di lingua non è dei/delle soli/sole parlanti, ma altresì degli/delle scriventi. Di tutti/e gli/le utenti di quella lingua, insomma, di tutti/e quelli/e che la usano ogni giorno: grandi e piccini/piccine».

Stiamo parlando di modalità scrittorie inservibili per risolvere il problema dell’inclusione grammaticale, esattamente come la vocale desinenziale u (“Caru tuttu”), come il doppio schwa, uno “breve” per il singolare (“Carə collega”) e l’altro “lungo” per il plurale (“Carз collegз”), o come l’ispanizzante chiocciolina informatica (“Car@ collega”) a suo tempo censurata dalla Real Academia al pari della vocale media e (todes, per todos e todas) e della x (todxs).

Tutti questi usi, spacciati per buone pratiche d’inclusione, pretendono di “neutrificare” la lingua senza tener conto di cosa davvero significhi scrivere o parlare. L’arbitraria codificazione di un inesistente “femminile sovraesteso” è però di analoga natura e come quegli usi, lungi dal costituire una soluzione alla parificazione di genere, aggrava una questione che, per la proliferazione dei generi “umani”, è già di per sé complicata.

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