«Sono Steven, vorrei parlare con Carlo». Mezzanotte, a Los Angeles. E certo, mica Spielberg poteva aspettare il giorno appresso. Daniela Rambaldi all’epoca, era il 1982, aveva sì e no 11 anni: «Dormivamo tutti, e già da un po’. Non le dico la faccia di mia madre quando disse a papà: è per te…».

Sembra la ragazzina di quella sera nel racconto di Carlo Rambaldi, genio semplice, «quasi inconsapevole della sua arte», tre volte premio Oscar: Alien, King Kong, E.T. Suo padre. E papà del più famoso, piccolo marziano dalla faccia da micio del cinema. «Il gattino di casa, passando una mattina mi fissò a lungo e io intuii che quello era il viso giusto» disse il maestro degli effetti speciali, superuomo della meccatronica, in un incontro nel 2007 nella sua casa di Lamezia Terme, «la mia nuova Los Angeles», in Calabria, dove visse l’ultimo pezzo della sua vita straordinaria. A quanti bussavano al suo campanello, pareva di vivere un sogno perché ad aprire la porta era proprio lui, insieme a sua moglie, Bruna Basso.

Il diario familiare di Daniela, la più piccola dei tre figli della coppia è un magnifico distillato di flashback che disorientano, perché nelle case della gente normale se il telefono squillava a mezzanotte dall’altra parte non c’era Steven Spielberg. Al massimo poteva essere tuo marito, arrivato a Torino col treno della sera. Insomma «ciao, dimmi Steve», come noi avremmo detto dimmi Pasquale, sei arrivato, hai mangiato, com’è il tempo? Steven Spielberg svegliò tutti in casa Rambaldi perché non dormiva più. Dei progetti per l’extraterrestre che poi fece commuovere milioni di persone non gliene piaceva neanche mezzo. Aveva bloccato la produzione: l’E.T. delle proposte americane faceva paura. Occorreva cambiare grugno, espressione, tutto.

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Il grande regista e il Maradona dell’effettistica avevano lavorato insieme nel 1978 per Incontri ravvicinati del terzo tipo: «Carlo ho un grande problema, e tu sei l’unico che può togliermi da questo guaio. Dobbiamo vederci». Daniela ascoltò in pigiamino bianco dal corridoio la conversazione di mezzanotte, quando mamma Bruna disse al marito dopo che aveva posato la cornetta: «Ma questo non poteva aspettare domani mattina?».

«Occorre fare in fretta, ti posso dare tre mesi Carlo».

«Me ne serviranno nove, Steve».

«Erano troppi. Spielberg – racconta Daniela Rabaldi – spiegò di non avere tutto quel tempo, che i contratti erano già tutti firmati. Papà terminò in sei mesi. Devo confessare, mi pareva bruttino. Però lo trovavo simpaticissimo, e fu questo che lo convinse. Doveva suscitare tenerezza nei bambini, e io ero una bambina. Quel film, col nostro dolce alieno, fu un successo planetario. Al punto che dopo quarantadue anni siamo ancora qui a parlare di E.T.».

Daniela e suo marito Antonio De Caro, imprenditore calabrese, vivono nella villa di famiglia che si affaccia sul mare di Falerna, snodo centrale tra la statale tirrenica e l’autostrada del Mediterraneo, dalla quale a un certo punto sei felice di uscire dopo le lunghe deviazioni per lavori non senza esserti chiesto come arriverò al ponte, quando ci sarà il ponte. Le palme, il sole, una spiaggia larghissima che si perde all’orizzonte. Sembra la California. Quando da una copertina di velluto spunta fuori E.T., il busto originale dell’extraterrestre che suo padre fece vedere a Spielberg per l’approvazione del personaggio, e che lui stesso imbalsamò, si rischia il capogiro. In un lampo ti trovi di fronte al mito.

Rapidissimamente, come potrebbe decollare la sua astronave, scorrono in testa le immagini di telefono-casa, del dito che guarisce, delle biciclette che prendono il volo. Della faccia di marziano smarrito. Un po’ come molti di noi. Un po’ come Carlo Rambaldi. Il primo modellino era di 30 centimetri, poi arrivò quel busto con tutti i dettagli, occhi, naso, bocca. Il collo lungo non era del gatto, ma ispirato a un suo dipinto del ’52, Donne del Delta, che riprende la silhouette di alcune ragazze del Ferrarese, sua terra d’origine.

Rambaldi era un artista da vertigine, da volteggio di dervisci. Entrando nella sua casa di Lamezia Terme sembrava di varcare l’ingresso di un paradiso del cinema, della pittura, della scultura. Del amatissimo Pinocchio collezionava libri in tutte le lingue e di tutte le epoche. Messo il piede nella stanzetta-laboratorio calabrese, di fatto una miniatura del mitico studio Rambaldi al 18409 di Bryant Street North Ridge 91325 di Los Angeles, venivi risucchiato come Mary Poppins col suo ombrellino, facendo saltare nel mondo che sta di là dalla realtà, al parco, i fratellini Jane e Michael Banks. Anche qui, il genio stava con la cicca accesa in modalità perenne. Disegnando, meditando, creando.

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«Il tavolo da lavoro era pieno di bruciature di sigarette. Ne consumava una e ne aveva accesa un’altra. Mamma lo sgridava, erano cani e gatti su questo fronte. Ma non ci fu nulla da fare», dice Daniela Rambaldi, tenendo in mano le tre statuette dell’Academy Award, fiera. «Avevamo un rapporto speciale io e lui, lo abbiamo sempre avuto – racconta – sin da quando, io ragazzina, lui schivo come un lupo, sognatore, poeta, mi dava le istruzioni per scappare via da un evento, che fosse una cena, o la stessa cerimonia degli Oscar. Diceva: quando ti strizzo l’occhio tu comincia a fare la lagna, così abbiamo la scusa per potere andar via».

Daniela era bravissima a scatenare l’inferno al segnale di suo padre, stanco di fare il gladiatore in un mondo che non sentiva suo. Non lo aveva mai visto piangere, nemmeno con quel dolore addosso, indicibile, per la morte prematura, nel 1994, del figlio Alex (l’altro dei suoi tre figli è Vittorio, regista e sceneggiatore). Successe soltanto quando nacque Daniel, nel 2006 all’ospedale di Lamezia, dove Carlo e Bruna si trasferirono per stare vicini alla figlia. «Superò la morte di Alessandro grazie ai nipotini. Per Cristina, Erica, Alessandra Veronica e Daniel è stato un nonno presente, attento, tenerissimo. Quello che non ha fatto con noi lo ha fatto con loro. Il tempo che non ha potuto dedicarci, lo ha dedicato ai nipoti. Sia negli Stati Uniti che in Calabria, quando li prendevo da scuola lui diceva di passare dal laboratorio, li teneva lì a disegnare, a giocare. Cristina ha preso molto da lui, ha 32 anni, fa l’attrice, è una sognatrice», si commuove.

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La semplicità

Lui sognava. Era estraneo a questo mondo, anche quando ne veniva coinvolto. Come nel 1971, quando in occasione della riapertura dell’istruttoria sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, il giudice chiese a Rambaldi di realizzare un manichino ad hoc, disponendo un esperimento per ricostruire quella caduta dalla finestra della questura di Milano. Lui schivo, riservato, a un certo punto fu costretto a dimostrare che era tutto un esperimento, tanto erano reali quegli effetti speciali visti sullo schermo a proposito del “duplicato” di questa tragedia italiana.

Anche Daniela disegna, dipinge, crea, ha una linea di moda, oltre a fare da memoria vivente, col fratello Victor, del genio. Che era rimasto sempre lo stesso di quando, bambino timido, andava a osservare le magie delle bicilette nella bottega di suo padre Valentino. Carlo morì la notte del 10 agosto del 2012, la notte delle stelle cadenti. A Lamezia. Che forse aveva preferito alle luci degli Oscar, ai party dove si era sempre annoiato, o alle cene a casa Rambaldi con John Travolta che portava il vino, o Jim Carrey a fare le facce strane. «Non l’ho visto mai senza sigaretta, e mai senza cravatta, anche quando qui scendeva sulla spiaggia a guardare il tramonto la indossava», ricorda Daniela, convinta che E.T. sia lì fuori da qualche parte e ci ascolti. Come darle torto.

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