Dopo The Other side (2015), Roberto Minervini è tornato in concorso al festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard con I Dannati, un primo film di finzione che ci catapulta all'epoca della Guerra di Secessione americana, in compagnia di una pattuglia di volontari in missione nelle aride terre inesplorate dell’Ovest degli Stati Uniti. Un anti western esistenziale che va a scavare nelle radici profonde dell'America sempre più inquietante di oggi

Perché un film di finzione? Si è stufato dalla realtà?

Per me il cinema è sempre stato un percorso esperienziale, uno strumento che mi ha permesso di incontrare e di raccontare le storie di persone che ho catturato fino ad oggi nel loro ambiente reale.

Questa volta l'esperienza è stata quella di fare un film insieme a loro e, in realtà, c'è ben poca finzione. Abbiamo semplicemente girato in altri spazi, in territori che portano con sé qualcosa di reale e di tangibile. Ci siamo piazzati per due mesi nelle valli di Helena in Montana e lì si è ricreato qualcosa che poi è la genesi del film.

Non ha avuto paura di perdere l'adrenalina data dalle riprese di un documentario? di non essere più sorpreso dalla realtà?

Assolutamente no, tra l'altro questo film è completamente improvvisato, non ho scritto nulla, non esiste nessuna sceneggiatura. Come i miei documentari precedenti è un film di creazione in cui, partendo da alcuni punti fermi storici, abbiamo improvvisato, in tempo reale.

Il cinema, per lei è un'arte politica?

Sì, lo è, inevitabilmente, forse è per questo che ho deciso di passare alla finzione. Il documentario è sempre e solo una verità altamente soggettiva che ha troppo a che fare con l’esperienza diretta del regista. Il documentario viene spesso elevato a verità assoluta e a volte nasce persino da preconcetti, il che è politicamente pericoloso perché può diventare uno strumento di sistema. Per questo ho deciso di spostarmi verso la finzione dove si è più liberi dallo status quo. La finzione è per definizione qualcosa di artefatto e quindi l'incidenza politica è meno pericolosa.

Così ammette di aver manipolato la realtà con i suoi documentari.

Non credo che esista un documentario che possa rappresentare fedelmente una realtà, il documentario manipola per definizione: si intercede in un contesto, si crea una relazione, si altera il corso delle cose, si impone una relazione tra il cineasta, la macchina cinema e il personaggio. Il pericolo politico del documentario è sempre dietro l’angolo soprattutto quando la realtà viene presa come verità…

EPA

Si sente un regista più onesto con la finzione?

Sì, sentivo il bisogno di uscire da questa dialettica tra la manipolazione e la ricerca dell'oggettività, della neutralità, del peso dell'etica che comunque è sempre fatto da una posizione di potere. La finzione mi libera di tutto ciò, non ho nulla da tramandare o da impartire, non cerco proseliti, non voglio indottrinare nessuno.

Perché è così affascinato dagli Stati Uniti, dai suoi diseredati, dalle ombre del sogno americano? In questo caso c'è addirittura una demistificazione della conquista del West.

Mi interessa il cinema partecipativo, che io chiamo dell'esperienza. Cerco storie nelle quali posso ritrovarmi e che in qualche modo mi raccontano. I Dannati affronta su vari livelli delle tematiche su cui mi interrogo: la diatriba tra bene e male, la mascolinità e la sua iper rappresentazione, e poi c’è anche una ricerca sulle radici dei conflitti di un Paese dove vivo da 24 anni e in cui ho messo su famiglia. Alla vigilia di una nuova elezione, dopo 8 anni pre e post-amministrazione Trump, la democrazia americana e le sue istituzioni sembrano più fragili che mai. È surreale ma ho sentito ad esempio invocare la legge suprema nel dibattito politico aperto e anche il ritorno della religione di Stato. Come siamo arrivati a questo punto? Ho cercato di capire scavando a ritroso nella storia di questa giovane democrazia.

Una democrazia in cui si aggira un desiderio inquietante di guerra civile.

Basta pensare al 6 gennaio 2021 con l’assalto del Congresso americano! Quando ho girato Louisiana (2015) ho seguito per almeno sei anni dei gruppi paramilitari che già si preparavano a un’insurrezione armata e sognavano uno scontro finale con lo Stato. Attualmente la situazione è preoccupante: diversi gruppi, piccole sommosse circoscritte, c’è una reale spaccatura sia sulla politica interna che su quella estera e sembra che nessun governo sia in grado di mettere d'accordo le varie fazioni. È un paese che annaspa, e dall'interno la situazione è preoccupante, per questo è da tre anni che mi sono spostato a New York dove mi sento più al sicuro. In Texas la situazione era diventata insostenibile, al punto che, in nome della volontà di accentuare le differenze tra uomo e donna, hanno iniziato a imporre a scuola anche dei codici di abbigliamento. Non ho avuto scelta, ho dovuto portare via i miei figli. Ormai ci sono due Americhe che viaggiano a velocità diverse.

Che cosa vorrebbe raccontare dall'Italia?

Mi piacerebbe raccontare l'Italia di provincia, che è quella poi che conosco, dove mi sono formato e forgiato. Sono marchigiano e ricordo che le città, con le loro dinamiche economiche e di potere, sembravano così lontane. Eravamo come il tubo di scappamento di una macchina Italia che viaggiava a tutta velocità, ci sentivamo ai margini, a respirare i fumi di un motore di cui non facevamo parte. Eravamo come spettatori inerti che non riuscivano ad interferire sul corso delle cose.

Chi sono gli artisti che l’hanno ispirato in Italia?

Pasolini per il suo essere vera voce indipendente e, di conseguenza, forse anche suo malgrado, una voce contro. La sua integrità e la dedizione alla sua visione, quindi alla sua causa, è stata una fonte di ispirazione enorme. Un altro artista è sicuramente Marco Ferreri, un visionario capace di instaurare un dialogo con il cinema europeo.

Nel suo cinema ha spesso affrontato il tema della crisi del maschio, se pensa che già nell’84 intitolava il suo film Il futuro è donna.

I miei film hanno sempre avuto dei personaggi femminili fortissimi, questo è un lavoro più marcatamente al maschile in cui ho scelto di raccontare la mascolinità in un periodo storico in cui gli uomini avevano un certo ruolo e le donne erano al loro servizio. Ho scelto di allontanarmi dall’immagine machista che viene spesso rappresentata nel genere cinematografico dei film di guerra, e di raccontare la fragilità di questi giovani soldati persi per due mesi nelle montagne. Volevo catturare qualcosa di primordiale e ritornare a quella catarsi, a quella vulnerabilità che in fondo ci contraddistingue.

Paolo del Brocco, ad di Rai Cinema, ha dichiarato all’ultimo festival di Bellaria che il cinema dovrebbe abbandonare le velleità autoriali. Non le sembra paradossale visto che è anche coproduttore del suo film? 

Il cinema d’autore continua a contribuire alla storia dell’arte, a prescindere dai ragionamenti istituzionali. La cosa certa è che il mio cinema continuerà sempre ad essere autoriale e i fatti dimostrano che il cinema d’autore ha sicuramente una sua fetta di mercato e un suo pubblico. Negli anni sono riuscito a creare un legame con i miei spettatori, perché essere autore significa anche avere una coerenza nella propria filmografia, abbandonare l'autorialità significherebbe anche tradire il pubblico che mi segue.

© Riproduzione riservata