Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Prima attraversammo una strada larghissima, con una striscia di asfalto al centro e due rigagnoli di acqua fetida dall’una parte e dall’altra. Si vedevano traverse polverose, con decine di carri gettati agli angoli, gruppi di donne sedute dinnanzi agli usci, galline, animali da soma legati ai muri e bambini che correvano dovunque.

Poi apparve un corso pieno di alberi in bei filari, le case basse con le terrazze, un curioso palazzo rosso e una cattedrale. I marciapiedi erano vastissimi e gremiti di tavoli, di sedie e di avventori. Le facciate pullulavano di insegne di legno: bar, circoli di cultura, partiti politici, sindacati, combattenti e reduci, fratellanza operaia, agricoltori, lavoratori, disoccupati, artigiani. C’era persino un circolo dei pensionati della previdenza sociale.

Ogni locale era brulicante di gente intenta al gioco delle carte. Infine arrivammo al porto, uno specchio d’acqua come un lago, immobile, vitreo, cento barche lungo una cala deserta, un vecchio rimorchiatore che cadeva a pezzi, un ammasso di ancore e catene di ferro che si disfacevano in un angolo del molo.

Tutte le strade attorno al porto erano completamente deserte. Così ci apparve Licata. Un intellettuale ci spiegò Licata. Era un uomo alto, magro, tragico, con gli occhiali, la pelle scura e lucida. Era laureato e poteva avere trentacinque anni.

Il suo sarcasmo era di un’indicibile tristezza, pareva un uomo che stesse parlando di cose futili e ne sorridesse, e d’un tratto però dovesse aprirsi la giacca sul petto e mostrare un piccolo foro sanguinoso: «Chiacchiere! Vedi? Io sono morto! Abbiamo perduto tempo!».

Mi disse: «Io sono di Licata, vivo a Licata e probabilmente ci morirò. Licata è una città dove non c’è niente: non c’è lavoro, non ci sono fogne, la terra è arida e male coltivata, non c’è acqua per lavarsi e talvolta nemmeno per bere. Tuttavia non è vero che la nostra sia una città povera. Noi produciamo questi! Valgono oro!».

Indicò una decina di ragazzi di otto o dieci anni che giocavano ai margini del marciapiede. Avevano delle magliette logore, le teste rapate, erano esili ma legnosi, avevano delle strane gambe magrissime, ma con le ossa dei ginocchi grosse e sporgenti come i bovini, le spalle aguzze, erano neri di sole e sicuramente di sporcizia.

Giocavano in modo curioso, cioè correvano, si spingevano o si gettavano a sedere stanchi sullo scalino, senza motivo alcuno. Probabilmente essi giocavano con niente. L’intellettuale li osservò, senza tenerezza, come se li stesse valutando.

Continuò: «In questo territorio si muore più facilmente che altrove, ci sono più malattie, provocate dalla denutrizione. Molta gente, soprattutto fra i contadini, ha la tbc senza saperlo; ha visto come giocano a carte cinquanta persone in una stanza di venti metri quadrati? Respirano fumo, fetore, aria malsana. Facciamo conto che muoiano dunque cento persone al mese. Poco male, tuttavia, poiché qui nasce molta più gente che altrove, almeno duecento in un mese o anche trecento, soprattutto in autunno, poiché sono i mesi che corrispondono al concepimento invernale. Diciamo che in media l’eccedenza delle nascite è di cento individui al mese. Noi perciò produciamo cento esseri umani ai mese, alcuni dei quali decedono negli anni dell’infanzia. Ma la maggior parte di loro continua a crescere finché diventano uomini. Il venti per cento sono analfabeti, il quindici per cento hanno tare fisiche derivanti dalla tragica infanzia. Il settanta per cento non hanno alcuna specializzazione di lavoro, sanno fare soltanto i lavori in cui è necessaria resistenza fisica, capacità di sofferenza e forza muscolare. Sono diventati così poiché non hanno mai avuto altra possibilità di scelta. Ad ogni modo, nell’età fra i venti ed i quaranta anni, costituiscono un prodotto finito!».

Parlava con una tetra tranquillità, usando proprio termini come se stesse parlando di oggetti, di patate, petrolio, mattoni di zolfo. La collera che aveva covato per tanti anni dentro, gli si era aggrumata come una pietra, non aveva più scintille, né scorie o violenze da cui la sua anima potesse restare ferita. Era un blocco di rancore e rassegnazione: gli pesava dentro e basta!

Continuò a dire: «Di questi trecento esseri umani che arrivano all’età del lavoro, ne esportiamo almeno ottanta. A Milano, a Parigi, ad Amburgo, a Londra. Sono richiesti da tutto il mondo. Se ci fosse una borsa valori degli uomini come per i diamanti o per il concime, gli uomini di Licata rappresenterebbero una delle qualità di eccellenza. Naturalmente esportiamo i più solidi e vigorosi.

Sono uomini che hanno una straordinaria pazienza, possono lavorare anche otto o dieci ore al giorno con qualsiasi clima, nelle campagne, nelle miniere, a costruire ferrovie, ponti; lavorano con venti gradi sottozero, oppure negli altiforni. Ognuno di questi uomini frutta in media cinquantamila lire al mese all’economia cittadina, poiché questa è la media delle rimesse degli emigranti alle famiglie.

Orbene in otto anni noi abbiamo esportato circa diecimila esseri umani. Qui ci siamo tenuti i vecchi, gli ammalati, i deformi, quelli che non vogliono lavorare, i borghesi, o più semplicemente quelli che avevano di che sopravvivere. Calcolando dunque che ogni emigrante invia alla famiglia circa cinquantamila lire al mese, ne deriva che tutti gli emigranti inviano al paese circa cinquecento milioni al mese. Cioè sei miliardi l’anno.

Quando dicono che qui non produciamo niente, né ortaggi, né minerali, né tessuti e che perciò siamo un paese miserabile, dicono una bestemmia. Quale altra industria riesce a garantire il lavoro a diecimila persone ed assicura all’economia di una piccola città un introito annuo di sei miliardi? Il petrolio di Ragusa? Fa ridere il petrolio. Rende nemmeno la metà!

Per giunta il petrolio non cambia niente: uno stantuffo che pompa dal ventre della terra, quattro operai che guardano con un elmo rosso in testa, chi è cafone o analfabeta resta tale. Qui è diverso. Ci sono diecimila di noi all’estero. Anche coloro i quali non sanno leggere e scrivere si dirozzano, imparano a parlare la lingua del posto, a volte visitano anche i musei, imparano a ballare, discernono la qualità dei cibi, conoscono città famose: Amburgo, Parigi, Liverpool, Monaco di Baviera.

Quando tornano, anche i professori restano a bocca aperta. Inoltre all’estero imparano un mestiere moderno, imparano a conoscere le donne, non so se mi spiego, le donne come diletto della vita e non come movente di onore. Noi stiamo diventando una città di livello e mentalità europei. Ogni tanto qualcuno di loro torna con quattro soldi a comperarsi la terra. Però cento ne tornano e duecento ne partono. La produzione è in incremento!».

© Riproduzione riservata