Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


La provincia di Enna viene considerata la più povera d’Italia, forse la più depressa dell’intero continente europeo. E invece quella di Enna è potenzialmente una delle province più ricche di tutto il meridione, solo che la sua ricchezza le sfugge continuamente dalle mani, come fosse sabbia.

Nella provincia di Enna, a Gagliano Castelferrato, c’è il più vasto giacimento di metano di tutta la Sicilia. L’Agip vi ha installato alcune trivelle gigantesche che lo pompano fino ad alcuni serbatoi, imponenti e bianchi come dirigibili, e di là il metano scorre via continuamente fino alla raffineria di Gela.

Alla gente di Gagliano resta solo quell’odore vago di fogna che emana dai pozzi. Niente altro. Nella zona di Pasquasia c’è la più vasta miniera di sali potassici. Questi minerali sono più importanti del petrolio, ci si può ricavare tutto quello che serve all’industria moderna: i concimi chimici, le materie plastiche, il politene, i disinfettanti, i profumi, i medicinali.

Metà dei grandiosi impianti industriali di Priolo lavorano con i sali potassici dell’Ennese, che arrivano in lunghe carovane di camion e cisterne. Agli ennesi restano i salari pagati ai duemila minatori che scavano il minerale in fondo alla terra. Basta.

Nelle contrade di Enna ci sono inoltre quattro miniere di zolfo e le tre grandi dighe dell’Ancipa, del Pozzillo e del Bozzetta. L’acqua è come lo zolfo, come il metano e i sali potassici: scivola dalle montagne dell’Ennese verso contrade lontane dove procurerà ricchezze (se mai riuscirà a procurarne) ad altre popolazioni.

Enna è un piccolo scoglio dal quale la ricchezza rotola via continuamente. Anche gli esseri umani, come l’acqua e i minerali. Ogni anno se ne vanno mille braccianti, contadini, manovali, artigiani, i più giovani, e si disperdono per tutta l’Europa a trovare lavoro. E se ne vanno quelle altre centinaia di diplomati, maestri elementari, ragionieri, laureati, medici, avvocati, professori.

Ognuno di costoro si lascia dietro un vuoto di qualche milione di lire, quei soldi cioè che la famiglia ha dovuto spendere per dieci o quindici anni per accompagnarlo negli studi, pagargli il vitto, i libri, l’assistenza.

Il diplomato o il laureato che se ne va si porta appresso i milioni che è costato alla sua famiglia e quindi all’economia della città, ed anche i soldi che produrrà in avvenire, gli stipendi, gli onorari che guadagnerà e che non torneranno mai a circolare nella città che lo ha preparato.

Ogni anno Enna fatalmente dilapida tutto quello che riesce a produrre, persino la sua intelligenza, la sua erudizione. Eppure sembra una città quasi felice. Insieme alle ricchezze di cui viene continuamente depredata, essa è riuscita a spogliarsi anche della sua malinconia, anzi addirittura a liberarsi di tutta la sua povertà superflua.

Enna ha trentamila abitanti, è un cittadina ridotta all’essenziale, la maggior parte dei suoi disoccupati se ne sono andati all’estero oppure hanno cambiato residenza verso la plaga del Catanese. Sono rimasti quelli che possono passabilmente sopravvivere, i più fortunati, i contadini che hanno un fondo da coltivare, quattromila minatori che hanno il salario garantito dalle leggi della Regione o dal profitto dell’industria per la quale lavorano.

Ed infine i burocrati. Fra tutte le città italiane Enna è seconda solo a La Spezia come percentuale di impiegati sul totale della popolazione. Su circa ottomila famiglie quasi quattromila sono a reddito fisso, cioè professori, bancari, impiegati degli enti locali, funzionari di prefettura, insegnanti elementari. Quando in una piccola città metà dei suoi abitanti hanno la sicurezza dello stipendio, l’altra metà della popolazione, cioè medici, avvocati, farmacisti, falegnami, muratori, droghieri, giornalai, parrucchieri, può vivere decorosamente sul reddito dei primi.

Sostanzialmente la cittadina di Enna è il contrario della sua provincia, la quale produce beni tangibili per il valore di decine di miliardi, ne viene continuamente depredata e resta poverissima.

Enna capoluogo viceversa divora continuamente reddito senza produrne. Ma lo fa amabilmente, con discrezione. Quando in Italia c’era il «boom» e la gente comperava beni di consumo, frigoriferi, radio, televisori, automobili, e programmava vacanze, case nuove, firmava vorticosamente cambiali, qui ad Enna ognuno continuò a vivere esattamente come prima, con la cortese, razionale avarizia del piccolo borghese, il cui reddito fisso viene soltanto scalfito dalle grandi ondate economiche.

E così continuò a vivere senza paure e sbigottimenti quando arrivò la recessione, quando decine di migliaia di iniziative commerciali furono distrutte di colpo e le cambiali divennero pesanti come pietre in tutta Italia.

Fra tutte le città siciliane Enna è la più piccola: e lassù, in cima alla montagna, al centro di un territorio quasi deserto, proprio un succedersi tumultuoso di vallate e vette senza un albero e una casa, essa appare ancora più minuscola.

È probabilmente anche la città che ha una più garbata prudenza delle proprie ambizioni. È silenziosa, ordinata, pulita, con la gente che cammina sui marciapiedi, parla sottovoce, non litiga quasi mai, dimostra un affabile senso di comprensione reciproca, una specie di attenzione continua a non turbare un prezioso equilibrio delle cose.

I borghesi stanno seduti ordinatamente nei bar, i vecchi contadini stanno sui sedili del belvedere che si eleva a picco sulla cima della montagna e guardano il panorama: cioè l’immensa vallata deserta.

Gli edifici pubblici sono lustri, le auto ben parcheggiate, gli abiti della gente decorosi, la curiosità e la noia bandite dalla buona educazione, da una ironica malinconia. In fondo si tratta di una piccola folla di gente messa su, in cima alla montagna, a governare l’altipiano.

L’altipiano dell’Ennese è il più povero dell’Europa, il più infelice, ma lassù, in cima alla montagna, la vita è confortevole, gli stipendi sono puntuali, le strade pulite, delitti non ne accadono poiché non c’è motivo di delinquere, i commercianti sanno che i loro crediti saranno saldati a fine mese, non ci sono grandi scioperi che possano suscitare emozione.

Gli scioperi hanno bisogno di drammatici problemi sociali, di travagli industriali, di flagelli nell’agricoltura. E qui industrie non ce ne sono, poiché sono state costruite altrove; i minatori sono stati assunti dalla Regione e, per legge e per vanità, si è persino proibito di poterli licenziare; e i braccianti se ne sono andati nel Belgio e nella Germania.

Sono rimasti i borghesi con le loro placide virtù, la loro erudita cortesia, le ansie segrete, la paziente ricerca di tutte quelle soluzioni che possano rendere più confortevole e dignitosa l’esistenza. La loro mitezza è anche il loro difetto: hanno cioè una specie di distacco psicologico da quella che è la tragedia del mondo che li circonda.

I bisogni brutali, le collere, le distorsioni mentali di altre città siciliane qui sembrano remote. Forse per questo, per questa assenza di problemi che perseguitano la vita quotidiana dell’individuo, ad Enna riescono ad avere una visione più precisa dei problemi collettivi.

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