Esattamente tre mesi fa, sul finire di marzo, è arrivato l’annuncio che ha fatto il giro del mondo: il pentimento del capo del clan dei Casalesi, Francesco Schiavone, meglio noto come Sandokan. Si era scritto del tramonto di un’epoca, di rivelazioni di segreti inconfessabili e di possibili terremoti politici e giudiziari.

A distanza di novanta giorni, a quanto risulta a Domani, quella collaborazione raccoglie preoccupanti silenzi e reticenze. Anche attorno a fatti e vicende sigillate, da un punto di vista investigativo, si riscontrerebbero incertezze e scivoloni. La montagna rischia di partorire un topolino, ma mancano ancora tre mesi per terminare i 180 giorni che la legge prevede come termine entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni e gli elementi di cui è a conoscenza. Una strada in salita che ha due sbocchi: o il prosieguo della collaborazione recuperando la retta via o la clamorosa esclusione dal programma di protezione. Non c’è altra strada e c’è ancora tempo.

Dalla procura di Napoli non filtra nulla, c’è il massimo riserbo sulla questione, ma il procuratore capo, Nicola Gratteri, ha un precedente non trascurabile che racconta rigore e approccio al tema pentiti. Altra procura, quella di Reggio Calabria, altra mafia, la ‘ndrangheta, altro collaboratore di giustizia, Nicolino Grande Aracri, un altro peso massimo del crimine organizzato che faceva affari tra Calabria ed Emilia Romagna. “Mano di gomma”, così è soprannominato il boss, voleva fregare Gratteri e la sua squadra.

Il procuratore di Napoli ha spiegato più volte in diverse interviste come approccia ai collaboratori di giustizia affidandosi a un’analisi perfino della mimica facciale e avendo una frase come guida per ogni inizio di collaborazione: «Devono dire tutta la messa, tutta la messa».

«Cornuti»

Proprio di recente è finito nuovamente in carcere il figlio di Sandokan, Emanuele Libero Schiavone, che era uscito dopo aver scontato la sua pena e stava organizzando una rappresaglia per i colpi di pistola sparati contro la sua abitazione. Proprio il rapporto con il figlio, i rischi legati alla sua smania di protagonismo hanno contribuito alla scelta della collaborazione del capo del clan. Emerge chiaramente dal decreto di fermo eseguito dalla procura di Napoli a carico di Emanuele Libero Schiavone, in possesso di armi da fuoco, arrestato per il pericolo di fuga e di commissione di azioni violente.

Le intercettazioni chiariscono una insanabile spaccatura. È il giorno 20 marzo, Emanuele Libero arriva in carcere per un colloquio con il padre, Sandokan. Francesco Schiavone gli confida che ha avviato il percorso di collaborazione e lo invita ad andare via da Casal di Principe, ma riceve un secco rifiuto dal figlio che gli risponde a brutto muso: «Devi far ridere i San Ciprianesi, dobbiam far ridere tutti (...) che tutto quanto ha le corna e sono cornuti».

I due litigano, il figlio gli dice un’ultima frase: «Ci porti sulla coscienza a me e tuo figlio Ivanhoe (l’altro figlio non pentito, ndr)». È il ricatto di sangue che ancora pesa come un macigno su Schiavone padre, l’ultima scena è degna di un film. Emanuele Libero chiede al padre, come aveva fatto all’inizio del colloquio, di avvicinarsi al vetro per darsi un bacio in bocca. Il padre di sangue e di crimine lo guarda e gira la faccia. Il gran rifiuto. Tra i figli c’è un altro pentito di peso, Nicola Schiavone, che aveva preso momentaneamente le redini del clan.

Le vittime e la giustizia

Schiavone padre è stato arrestato nel 1998, già in passato aveva pensato di avvicinarsi allo stato come quando, come rivelato proprio da Domani, aveva chiesto di fare lo scopino in carcere raccogliendo la ferma contrarietà del figlio. Era il 2019.

Ora il conflitto familiare torna preponderante a condizionare scelte e futuro, ma quanto è importante la collaborazione di Sandokan? «C’è un piano sociologico che riguarda la fine di un’epoca, io ho guardato con attenzione a quella scelta perché significa chiudere quel capitolo per sempre. Un altro piano è umano perché il più potente si arrende e bisogna capire perché lo ha fatto, spinto forse anche dal rapporto con i figli, dalle preoccupazioni per l’imminente uscita dal carcere di Emanuele Libero, ora di nuovo arrestato. E poi c’è un altro piano, quello più importante. Quella collaborazione ha un valore anche solo per dirci la verità su alcuni omicidi di innocenti, penso a quello dell’imprenditore e politico locale Luigi Iannotta, avvenuto nel 1993. Quella ferita è rimasta aperta, il tempo per familiari e amici si è fermato a quell’immagine con il figlio al balcone che assiste all’omicidio del padre che era andato a prendergli un gelato. Sul resto, da un punto di vista giudiziario, è una collaborazione che può offrire poco, molti reati sono prescritti, forse potrebbe contribuire a una ricostruzione storica di alcune vicende», dice Rosaria Capacchione, giornalista che conosce il potere criminale dei Casalesi a menadito per averlo raccontato e rischiato in prima persona.

Ci sono altri fatti di sangue che potrebbero avere una rilettura o un contributo conoscitivo, come l’omicidio del fondatore dei Casalesi, Antonio Bardellino, avvenuto nel 1988, in Brasile, la cui ricostruzione è cristallizzata nella sentenza Spartacus. Proprio l’eliminazione di Bardellino aveva spianato la strada all’ascesa dei nuovi vertici. Più di recente c’è l’omicidio dell’imprenditore Michele Orsi, avvenuto nel 2008, quando Schiavone era in carcere al 41 bis, ma su certi agguati le verità corrono veloci anche dietro a un blindo. Ora su quella collaborazione si addensano ombre, Schiavone deve decidere se dire o no tutta la messa.

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