Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dal 29 luglio è iniziata la prima serie dedicata alla sentenza della corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini per la strage di Bologna e ha squarciato il velo su alcuni mandanti.


Come si è accennato in precedenza, ragionando sulle informative di Tramonte, la bomba dell’Italicus era destinata inizialmente a colpire la città di Bologna, obiettivo privilegiato di Ordine Nuovo. Bologna sarà direttamente colpita pochi anni dopo, nel diverso contesto eversivo che analizzeremo dopo. Sta di fatto che, come abbiamo visto a proposito delle inchieste sul golpe Borghese, su Sogno e sulla Rosa dei Venti, nessuna pulizia fu fatta negli apparati dello Stato che avevano fornito supporto agli esecutori della strategia eversiva.

A parte qualche trasferimento e qualche effetto della vicenda che coinvolse il generale Miceli, nei servizi segreti, anche se in apparenza riformati e negli alti comandi dell’esercito e dei carabinieri, si continuava a ragionare in termini di interferenza nel gioco politico al servizio di forze occulte.

Il treno espresso Italicus era partito dalla stazione di Roma Tiburtina alle 20:42 con sette minuti di ritardo rispetto all’orario previsto delle 20:35. Arrivò alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze alle 00:17 del giorno 4 agosto. Ripartì alle 00:36 dopo una sosta di diciannove minuti. Alle ore 1:17 del 4 agosto imboccò, la lunga galleria "direttissima" fra Toscana ed Emilia. Poco prima dell’uscita dalla galleria, intorno all’1:24, un ordigno esplose nel secondo scompartimento del quinto vagone.

Si appurarono numerose analogie nei mezzi usati per la strage mancata di Vaiano.

Le indagini si orientarono nel senso che la bomba fosse stata sistemata mentre il treno era in arrivo o fosse comunque giunto alla stazione di Firenze alla stazione di Firenze. Si appurò che il neofascista Luciano Franci, addetto al servizio postale, quella notte era al lavoro alla stazione di Firenze e operò proprio sui marciapiedi a fianco al treno in sosta. Circostanza gravemente indiziante, il fatto che Franci non doveva essere lì quella notte di un giorno festivo, ma aveva chiesto a un collega di cambiare turno.

I processi evidenzieranno la serie di lacune, omissioni, sviamenti che accompagneranno le investigazioni e che contribuiranno in modo decisivo a rendere inquinato il giudizio finale.

Resta la verità storica attestata nelle sentenze secondo cui tutti gli imputati degli attentati compiuti in quegli anni, raggiunti da gravi indizi che ne giustificavano il rinvio a giudizio per strage, erano militanti dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, con diverse denominazioni dopo il 1973, epoca del suo scioglimento per decreto del Ministero dell’Interno.

L’organizzazione aveva l’obiettivo di creare una situazione di emergenza con riguardo alla gestione dell’ordine pubblico; dimostrare che la democrazia non era in grado di assicurarlo e che solo una reazione energica dei militari avrebbe potuto ripristinare condizioni di sicurezza. In tal modo si sarebbe aperta la strada alla svolta autoritaria nel governo del Paese per la quale in tanti lavoravano da alcuni anni e in relazione alla quale erano in campo i tentativi di golpe (ricordiamo che Sogno e il suo gruppo sono in quel momento in piena attività per un colpo di Stato previsto per la metà di agosto). Si tratta di un piano che segue alla lettera i modelli della "guerra non ortodossa" e della "controinsorgenza" dell’appendice B del Field Manual attribuito al generale Westmoreland.

Sta di fatto che dopo la strage dell’Italicus emersero indizi forti per muovere nella direzione del gruppo dell’aretino Augusto Cauchi.

Una fonte, tale Del Dottore indicò ai carabinieri di Arezzo, il cui comandante Domenico Tumminello, risulterà poi affiliato alla P2, che gli autori degli attentati alle linee ferroviarie erano Luciano Franci e i suoi camerati, fornendo indicazioni sul gruppo che nascondeva dell’esplosivo, effettivamente ritrovato il 7 agosto in un deposito occultato da Franci.

Il materiale fu fatto esplodere e si impedì la comparazione con quello dell’attentato all’ Italicus. La pista risultata attendibile non fu immediatamente percorsa e non si collegò la notizia alla presenza di Franci alla stazione di Firenze la sera dell’attentato. Di tutto questo nulla fu detto ai magistrati, così come non si valorizzò il significato dei tre successivi falliti attentati con esplosivo verificatisi fra il 31 dicembre 1974 e il 7 gennaio 1975 lungo la linea Arezzo-Chiusi.

Solo successivamente si giunse all’arresto dei neofascisti Luciano Franci e Piero Malentacchi, mentre stavano per recuperare una certa quantità di esplosivo. Nelle tasche di Malentacchi fu trovato il testo della rivendicazione, scritto a mano da Franci, di un attentato programmato ai danni della Camera di commercio di Arezzo. La rivendicazione faceva riferimento all’impiego dell’esplosivo che i due stavano recuperando al momento dell’arresto. Il proclama era a nome del Fronte nazionale rivoluzionario, fondato nel 1973 da Mario Tuti.

Da questi arresti scaturirono le indagini che porteranno al primo processo contro Franci, Malentacchi e Tuti; le confidenze di Franci ad Aurelio Fianchini a proposito del programmato attentato alla Camera di Commercio, previsto per il pomeriggio del 22 gennaio 1975; i nomi di coloro che l’avevano organizzato. Successive intercettazioni telefoniche sull’utenza in uso di Margherita Luddi, compagna di Franci, portarono all’ascolto di una chiamata da parte di un certo Mario che permise agli investigatori di sequestrare un importante quantitativo di esplosivo nella casa di campagna della nonna della Luddi, dello stesso tipo usato negli attentati di quei giorni, ma soprattutto all’identificazione del chiamante in Mario Tuti, capo del gruppo, considerato il mandante delle azioni attribuite a Franci, le cui vicende sono troppo note per essere qui rievocate.

Le successive vicende processuali possono essere rapidamente riassunte.

Alessandra De Belli, moglie di Augusto Cauchi, fornì indicazioni sulla responsabilità del marito per l’Italicus, ma non fu creduta sulla base di valutazioni opinabili. E infine la vicenda Fianchini/D’ Alessandro con precisa chiamata in reità per Tuti Franci e Malentacchi. Anche in questo caso, al termine di una complessa vicenda, i risultati processuali furono complessivamente nulli benché una Corte d’appello abbia ritenuto di affermare la colpevolezza di Tuti e Franci, smentita poi dalla Cassazione nonostante il significativo compendio indiziario.

Nell’ambito delle indagini venne alla luce il finanziamento del gruppo toscano da parte di Licio Gelli, attraverso i contatti stabiliti da Augusto Cauchi e dal professor Giovanni Rossi, massone introdotto sia tra i neofascisti che tra i carabinieri. Su questi finanziamenti le fonti furono anche altre. Tutte sono concordi nell’affermare che Gelli erogasse denaro per permettere al gruppo di addestrarsi per un’azione di controresistenza armata. Le indagini su Gelli nel contesto Italicus non andarono oltre, nonostante ulteriori denunce sul suo conto e i suoi progetti eversivi da parte, in particolare, dell’ingegner Francesco Siniscalchi, già gran maestro della massoneria.

Dopo l’assoluzione dei quattro imputati (Tuti, Franci, Malentacchi e Luddi) in primo grado, il giudizio di appello si arricchì di elementi di prova che confermarono l’indole eversiva e terroristica del gruppo aretino. Andrea Brogi, membro del gruppo e reo confesso di attentati dinamitardi riferì della saldatura tra il gruppo di matrice ordinovista e altri ambienti istituzionali di destra, operanti in Arezzo. Brogi descrisse quale rilievo avesse assunto per il gruppo toscano il nucleo milanese denominato Ordine nero (Giancarlo Esposti, Alessandro Danieletti, Fabrizio Zani, Alessandro Dentino).

Legami politici e di azione indicati anche da Valerio Viccei, il quale dal I 985 aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Lo stesso Brogi aveva indicato anche i nomi di parecchi ufficiali legati ai gruppi neofascisti toscano e milanese, apparsi, come abbiamo visto, nell’indagine sul golpe Borghese, in quella del giudice Tamburino sul «Sid parallelo», oltre che in quella sul gruppo "Pace e Libertà" di Edgardo Sogno.

I rapporti intercorsi fra la loggia P2 e gli extraparlamentari di destra aretini furono confermati da molteplici testimonianze, compresa quella di Franci. È opportuno un nuovo richiamo a quanto fu detto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 nella relazione finale: «la loggia P2 è gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può considerarsene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale».

La Corte d’assise di appello di Bologna nel primo processo tenne conto dei nuovi risultati investigativi e giunse a una sentenza di condanna che rispecchiava l’impianto accusatorio nei confronti di due dei quattro imputati. Un impegno che non produsse frutti, perché la cassazione annullò la sentenza.

Resta tuttavia fondamentale ai fini del ragionamento ricordare come sin dalla sentenza di primo grado della Corte di assise di Bologna, che assolse Tuti, Franci, Malentacchi e la Luddi, fu affermato che la strage del treno Italicus era «pacificamente ascrivibile a una organizzazione terroristica che intendeva creare insicurezza generale, lacerazioni sociali, disordini violenti o comunque (nell’ottica della cosiddetta "strategia della tensione") predisporre il terreno adatto per interventi traumatici della normale, fisiologica e pacifica evoluzione della vita politica del Paese».

A sua volta la sentenza di appello ribadì come la strage fosse stata opera di un’organizzazione eversiva di estrema destra impegnata al fianco dei progetti elaborati da movimenti golpisti: "L’escalation del terrore era potenzialmente idonea a suscitare nel corpo sociale un’emozione tale da predisporlo ad accettare, se non ad auspicare, un intervento normalizzatore da parte delle forze armate".

Questo fu l’obiettivo dei gruppi eversivi operanti in Veneto, in Lombardia e in molte altre regioni, come ormai accertato nella sentenza milanese del 2015. Il 1974 fu l’anno in cui fu tentata la spallata definitiva da parte di Maggi e degli altri che volevano colpire in primo luogo Bologna come sede e "capitale" del nemico comunista. L’attacco perse consistenza man mano che nello stesso anno venivano meno i supporti esterni all’azione eversiva, dalla caduta fondamentale della presidenza Nixon, alla "rivoluzione dei garofani" del 25 aprile in Portogallo, alla caduta il 24 luglio 1974 della dittatura militare in Grecia che aveva rappresentato per anni una retrovia per neofascisti, ali’ ormai evidente irreversibile crisi del franchismo.

La Corte d’assise di appello affermò che la strage era stata posta in atto dalle stesse organizzazioni neofasciste che avevano commesso altri analoghi e gravissimi attentati nel medesimo arco temporale. Una serie di atti terroristici commessi nell’ambito del Fronte Nazionale Rivoluzionario fondato da Mario Tuti. Vale la pena ricordare che è sempre stata sottolineata la coincidenza di data tra la strage alla stazione e il deposito da parte del primo giudice istruttore bolognese della sentenza istruttoria contro Tuti (e gli altri).

© Riproduzione riservata