Un fantasma ridicolo si aggira per i social e qualche giornale: Luciano Lattanzi, il ricercatore fantasma dell’Università di Urbino, improduttivo (cioè autore di nessuna pubblicazione) da più di vent’anni.

Il collega (anche chi scrive è un professore universitario) è indifendibile. Il problema forse non è legale: i ricercatori a tempo indeterminato assunti prima di una certa data non hanno il dovere di fare didattica per contratto e la loro produttività in termini di pubblicazioni viene sì misurata, ma gli unici disincentivi sono i fondi aggiuntivi dati alle università a seconda della produzione dei propri membri. Per quanto io possa capire, Lattanzi non ha trasgredito alcuna legge.

Nel nostro sistema la produttività scientifica è affidata solo a incentivi economici di sistema e al senso morale. E gli incentivi economici sono minimi: i fondi premiali che le università ricevono quando i propri ricercatori e docenti si collocano in buona posizione sono inferiori ai tagli degli ultimi anni.

Il carico di lavoro lasciato al senso morale è altissimo. Per essere trasparenti: chi scrive ha partecipato a quattro conferenze nell’ultimo mese, senza contare varie lezioni in altri atenei su invito, è alle prese con cinque articoli da finire e un paio di libri, sta organizzando una parte di una conferenza in autunno, coordina e partecipa a un paio di progetti finanziati, tiene cinque corsi (due insieme a un altro docente) e fa i relativi esami, è coordinatore di un corso di laurea, e altre amenità simili. E non sono certo uno dei più produttivi. Conosco e ammiro colleghi e colleghe che hanno vite anche più intense della mia.

Come si vede dai ranking, ma anche solo guardando i libri in inglese e in altre lingue europee in tutte le discipline, che hanno molti autori e autrici col cognome italiano, la nostra università produce ricercatori e docenti di una qualità più alta di quanto ci si aspetterebbe da un paese con la nostra popolazione e con la quantità di fondi destinati alla ricerca dai vari governi.

Questioni di sistema

Allora, che cosa bisogna pensare di fronte a casi come questo? Il primo pensiero è una certa rabbia: persone come Lattanzi sono un affronto a tutti gli altri ricercatori e docenti seri. Ma, superata la rabbia, forse si dovrebbe pensare alle questioni di sistema. Come ho detto, i contratti richiedono molto di meno di quello che il buon senso e il senso morale esigerebbero. Questo non avviene solo all’università. Anche in un’azienda privata il lavoratore che si limiti a eseguire il proprio compito alla lettera non è un buon lavoratore. La saggezza e il senso morale, la cosiddetta professionalità, sono elementi essenziali. E la ragione per cui la professionalità non si può contrattualizzare è ovvia: non si tratta di procedure, di algoritmi, ma di intuizioni, giudizi contestuali, che richiedono, appunto, senso pratico e saggezza.

Ma a questo punto arriva l’ingiustizia: si passa dall’idea che certe capacità siano richieste ma non formalizzabili all’idea che siano dovute, scontate. Il punto sostanziale della vicenda di Urbino è che il suo protagonista non fa una serie di cose che varrebbero il suo stipendio, ma non gli sono richieste, ma la maggior parte di noi fa cose che non sono pagate affatto dal nostro stipendio. Non è questione di impiego pubblico o meno, come detto.

Anche nelle aziende private la retorica della professionalità finisce per chiedere ai lavoratori e alle lavoratrici qualità che vanno molto al di là del corrispettivo economico. Il trucco è questo: si impiega una retorica per cui fa parte dell’onore e dell’onestà fornire una serie di prestazioni sofisticate, spesso aggiuntive, di elevata qualità, anche quando il proprio inquadramento economico sia del tutto inadeguato. Si estrae dal lavoratore un lavoro senza pagarlo, né più né meno, per mezzo di leve reputazionali e sociali.

A chi piacerebbe la gogna mediatica toccata a Lattanzi? Con la burocratizzazione dell’università e la quantificazione della ricerca scientifica, ai professori sono stati chiesti sforzi superiori per ragioni solo morali.

Si può dire che il valore della ricerca, il valore di Giorgio Parisi, per dire, sia inestimabile e quindi a lui e ad altri la nostra comunità non deve più di quel che gli dà: non è questione di stipendio, ma di ardore, passione, vocazione. Ma allora non possiamo rimproverare Lattanzi perché si limita allo stretto indispensabile. Fa parte del gioco. Abbiamo deciso che paghiamo il minimo e speriamo nella passione di pochi.

Questione di incentivi

Oppure si può pensare che la ricerca sia un asset su cui investire. Ma allora non bastano solo incentivi morali. Questo non vuol dire stipendi differenziati o privatizzazione ulteriore dell’università. Di quella ne abbiamo avuta già abbastanza. Né vuol dire la rincorsa di criteri di valutazione solo quantitativi: e se il collega di Urbino avesse scritto un articolo di enorme valore, negli anni prima del 2003 (temo non l’abbia fatto, purtroppo)? Davvero è importante che ne scriva quattro l’anno, magari ripetitivi? Nelle cose di cui mi occupo ci sono filosofi noti per un solo articolo, che ha cambiato la discussione (due nomi: Paul Gettier e John Taurek). Sono improduttivi?

La ricerca scientifica non è un affare di pochi geni, ma il prodotto di un tessuto cooperativo. I geni fioriscono sulle spalle di onesti professionisti. Che forse bisognerebbe attirare con uno status adeguato, piuttosto che urlare allo scandalo per i pochi disonesti.

E naturalmente lo stipendio di un ricercatore è relativamente alto: alto in relazione a docenti di scuola e altre figure che fanno una professione più o meno intellettuale. (La differenza fra retribuzione di maestri, professori di scuola media e superiore e docenti universitari è totalmente ingiustificata ed è uno scandalo di cui pochi parlano). Ma rimane il punto: o ci fidiamo solo della passione, e quindi non dovremmo stupirci, o ci chiediamo come finanziare la ricerca scientifica in un sistema sostanzialmente capitalistico, cioè basato su incentivi economici.

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